La Cassazione chiarisce che nel momento in cui un imputato è stato condannato per il reato di stalking condominiale con sentenza passata in giudicato, se poi commette nuove condotte in grado di integrare lo stesso reato, non può esserci collegamento tra i fatti commessi prima e dopo l’intervenuto giudicato. In caso contrario il soggetto verrebbe giudicato due volte, in palese violazione del principio del ne bis in idem.
1. Con sentenza del 1 giugno 2018 la Corte di Appello di Messina ha confermato la pronunzia del Tribunale di Barcellona P.G. con la quale – per quanto qui di interesse – T.D. era stato dichiarato colpevole del reato di cui agli artt. 582 e 583 c.p..
1.1. La condotta contestata al T. è quella di aver provocato a A.A. lesioni (dalle quali derivava una malattia di durata superiore ai quaranta giorni e, comunque, l’indebolimento permanente di un arto) investendolo volutamente con la propria auto, mentre l’ A. viaggiava sul suo motociclo nella corsia opposta di marcia.
1.2. Con la stessa sentenza sono state confermate le statuizioni civili in favore dell’ A..
2. Avverso la pronunzia della Corte di Appello propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, articolando i tre motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.
2.1. Con il primo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali in relazione alla qualificazione giuridica dei fatti.
Il ricorrente, dopo aver indicato una serie di circostanze emerse dall’istruttoria dibattimentale, sostiene che il sinistro stradale venne cagionato da una disattenzione e che, pertanto, sia erronea la qualificazione giuridica dei fatti oggetto di contestazione, dovendo essi invece essere ricondotti nella meno grave fattispecie di cui all’art. 590 c.p..
Viene quindi censurata la motivazione nella parte in cui non ha tenuto debito conto, in maniera insufficiente, illogica e contraddittoria, di circostanze quali: gli evidenti segni di frenata rinvenuti sul selciato della strada, che dimostrerebbero la non volontarietà dell’investimento; il “malanimo” nutrito dall’ A. nei confronti del T., che minerebbe l’attendibilità della persona offesa; le dichiarazioni della teste C. (madre dell’imputato), alla quale l’ A. aveva riferito di essere consapevole del fatto che l’incidente era avvenuto per colpa; le dichiarazioni del teste A.S., che ha riferito di aver saputo dal fratello (la persona offesa) che il T. “guidava nella propria corsia di marcia”; il comportamento “post delictum” del T., il quale si era recato subito in ospedale per accertarsi delle condizioni di salute dell’ A..
2.2. Con il secondo motivo si denunziano violazione di legge e vizi motivazionali sulle modalità con le quali è stata esaminata la persona offesa.
Secondo il ricorrente l’ A. avrebbe dovuto essere esaminato quale testimone assistito ai sensi dell’art. 197 bis c.p.p., comma 2, giacchè doveva ritenersi imputato di reato “collegato”; egli, infatti, qualche giorno prima aveva aggredito il T., tanto che proprio tale circostanza ha costituito, secondo l’ipotesi accusatoria, il “movente” del delitto ascritto in questa sede.
Viene quindi censurata la motivazione della sentenza di appello che ha ritenuto infondate le doglianze dell’imputato, argomentando come si tratti di fatti tra loro scollegati, perchè, anche se formalmente reciproci, sono stati commessi in contesti spaziali e temporali del tutto diversi.
2.3. Con il terzo motivo si lamentano violazione di legge e correlati vizi motivazionali in relazione al rigetto della richiesta di esaminare ex art. 507 c.p.p., la teste T.C., che avrebbe potuto riferire sulla circostanza del colloquio avvenuto tra l’ A. e la madre dell’imputato, durante il quale il primo avrebbe riconosciuto che l’investimento era stato accidentale.
Il ricorso è inammissibile.
1. Versato in fatto e manifestamente infondato è il primo motivo, con il quale il ricorrente sostiene che nella specie sarebbe configurabile il reato di cui all’art. 590 c.p., in quanto il sinistro stradale venne cagionato da una “disattenzione”.
Sulle analoghe censure proposte con l’atto di appello, la Corte territoriale ha risposto con motivazione congrua e logica, nonchè basata su una valutazione puntuale delle risultanze processuali (pagg. 5 – 7 della sentenza di appello).
A fronte di tale ordito motivazionale, le deduzioni difensive mirano solo a una rivalutazione dei fatti e delle prove, inammissibile in sede di legittimità.
Peraltro, è bene ribadire che integra l’elemento psicologico del delitto di lesioni volontarie anche il dolo eventuale, ossia la mera accettazione del rischio che dalla propria azione derivino o possano derivare danni fisici alla vittima (Sez. 4, n. 28891 del 11/06/2019, Cascio Vito, Rv. 27637301; si vedano anche Sez. 4, n. 54015 del 25/10/2018, Contu Luciana, Rv. 27475002; Sez. 5, Sentenza n. 35075 del 21/04/2010, Rv. 248394).
D’altronde è incontroverso che il delitto di lesioni volontarie richiede un dolo generico, consistente nella consapevolezza che la propria azione provochi o possa provocare danni fisici alla vittima; non occorre, al contrario, che la volontà dell’agente sia diretta alla produzione di determinate conseguenze lesive (Sez. 5, n. 17985 del 09/01/2009, Presicci, Rv. 24397301).
2. Il secondo motivo di ricorso è pedissequamente reiterativo di quello proposto con l’atto di appello e in relazione ad esso la Corte territoriale ha congruamente e correttamente risposto (pagg. 5 – 7 della sentenza di appello), escludendo che nella specie si possano configurare i presupposti per l’applicabilità di una delle ipotesi di connessione, rilevanti a norma dell’art. 12 c.p.p. e art. 371 c.p.p., comma 2, lett. a, così da imporre l’esame dell’ A. quale testimone assistito ai sensi dell’art. 197 bis c.p.p., comma 2.
La Corte territoriale, in particolare, con riferimento alla circostanza che qualche giorno prima l’ A. aveva aggredito il T. (tanto che proprio tale circostanza ha costituito, secondo l’ipotesi accusatoria, il “movente” del delitto ascritto in questa sede), ha argomentato che si tratta di fatti tra loro scollegati, perchè, anche se formalmente reciproci, sono stati commessi in contesti spaziali e temporali del tutto diversi.
Peraltro, non risulta e neppure è stato dedotto che la difesa dell’imputato abbia svolto delle censure sulle modalità di assunzione della testimonianza dell’ A. prima del suo esame.
Va allora ribadito che, in tema di prova dichiarativa, l’omissione dell’avvertimento previsto dall’art. 64 c.p.p., comma 3, lett. c), nei confronti del soggetto che riveste la qualità di indagato o di imputato in un procedimento connesso o collegato (art. 210 c.p.p.) dà luogo all’inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte, a condizione che la situazione di incompatibilità a testimoniare, ove non già risultante dagli atti, sia stata dedotta prima dell’esame (Sez. 5, n. 13391 del 23/01/2019, Bazzurri Michele, Rv. 27562401).
Infatti è onere della parte interessata ad opporsi all’assunzione della testimonianza di allegare le circostanze fattuali da cui risultano situazioni di incompatibilità a testimoniare, sempre che la posizione del dichiarante non risulti già dagli atti nella disponibilità del giudice e non sussistano i presupposti perchè questi si attivi d’ufficio, in conseguenza di una richiesta di prova formulata sul punto dalle parti, ex art. 493 c.p.p., ovvero in ragione dell’assoluta necessità di disporre l’escussione del dichiarante, ai sensi dell’art. 507 c.p.p. (Sez. 6, n. 12379 del 26/02/2016, Picciolo, Rv. 26642201).
3. Inammissibile è anche il terzo e ultimo motivo con il quale si lamentano violazione di legge e correlati vizi motivazionali in relazione al rigetto della richiesta di esaminare ex art. 507 c.p.p., la teste T.C., che avrebbe potuto riferire sulla circostanza del colloquio avvenuto tra l’ A. e la madre dell’imputato, durante il quale il primo avrebbe riconosciuto che l’investimento era stato accidentale.
La Corte territoriale ha ampiamente motivato sulla superfluità dell’esame della suddetta teste, con valutazioni di merito non sindacabili in questa sede (pag. 5 della sentenza di appello).
4. Alla pronuncia di inammissibilità consegue ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma che, in ragione del tenore delle questioni dedotte, appare equo determinare in Euro 3.000,00.
Il ricorrente va pure condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, nella misura qui di seguito indicata in dispositivo.
P.M.Q. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 2400,00, oltre accessori come per legge. Così deciso in Roma, il 15 novembre 2019. Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2020
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