Istituti di protezione dei soggetti bisognosi Sez. 1, n. 00786/2017

La prodigalità, che consiste in un comportamento abituale caratterizzato da larghezza nello spendere, nel regalare o nell’assumere rischi, eccessiva rispetto alle proprie condizioni socio-economiche ed al valore oggettivamente attribuibile al denaro, configura autonoma causa di inabilitazione, ai sensi dell’art. 415, comma 2, c.c., come evidenziato da Sez. 1, n. 00786/2017, Genovese, Rv. 643349-01, indipendentemente da una sua derivazione da specifica malattia o comunque infermità, e quindi, anche quando si traduca in atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita, purché sia ricollegabile a motivi futili (ad esempio, frivolezza, vanità, ostentazione del lusso, disprezzo per coloro che lavorano, o a dispetto dei vincoli di solidarietà familiare). Ne discende che il suddetto comportamento non può costituire ragione d’inabilitazione del suo autore quando risponda a finalità aventi un proprio intrinseco valore. Nel caso di specie, la S. C. ha ritenuto insussistenti gli estremi della prodigalità nella condotta di un soggetto che, mediante la redistribuzione della propria ricchezza a persone a lui vicine, anche se non parenti, intendeva dare una risposta positiva e costruttiva al naufragio della propria famiglia



 
Posto che: a) l’inabilitazione per prodigalità può essere pronunciata solo allorché la dispersione del proprio patrimonio da parte dell’inabilitando sia ricollegabile a motivi futili, e b) il giudice al riguardo dispone di ampi poteri officiasi, sicché non è limitato dalle allegazioni e dalle difese delle parti, al punto che, in grado di appello, può estendere il suo accertamento anche a fatti non allegati o acquisiti nel giudizio di primo grado, è correttamente motivata, e non sindacabile in Cassazione, la pronuncia di merito che abbia escluso la ricorrenza della richiamata fattispecie, avendo accertato che l’inabilitando, a fronte del naufragio della sua famiglia e dell’allontanamento delle figlie, ha ridistribuito parte dei propri averi alle persone rimastegli vicine in una logica premiale e riconoscitiva.

 

 



 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’appello di Roma, in accoglimento del gravame principale proposto dal signor Bi.Ad. contro la sentenza del Tribunale di quella stessa città che, in adesione della domanda delle figlie, le signore B.A., M.P. e R., ne aveva dichiarato l’inabilitazione per prodigalità, ai sensi dell’art. 415 c.c., comma 2, ha rigettato quella domanda, revocato la nomina del curatore provvisorio, e in reiezione del’appello incidentale delle figlie ricorrenti, ha altresì respinto la richiesta di trasmissione degli atti al giudice tutelare per la valutazione in ordine all’apertura di un’amministrazione di sostegno del loro genitore.

2. Secondo la Corte territoriale, l’impugnazione doveva essere accolta in quanto, per quello che ancora rileva, esclusa la malattia psichica e il deterioramento cognitivo del B. o un disturbo psichiatrico andava esclusa anche la prodigalità.

2.1. Infatti, le rilevanti dismissioni immobiliari e gli investimenti criticati dalle ricorrenti non esprimevano la richiesta tendenza allo sperpero, “per incapacità di apprezzare il valore del denaro” o per “frivolezza, vanità od ostentazione”.

2.2. Il versamento della somma di Euro 120.000,00 alla coppia di amici quale corrispettivo per l’occupazione, vita natural durante, di una parte del loro immobile non sarebbe, al pari dell’acquisto (e ristrutturazione) di un appartamento in favore del figlio G., una circostanza rilevante ai fini della pronuncia di inabilitazione, eventualmente potendo il primo integrare solo “un cattivo affare” ed il secondo un atto lesivo dei diritti successori delle figlie.

2.3. Neppure integrerebbero quella supposta tendenza allo sperpero le altre condotte ascritte all’inabilitando, quali la contestazione di titoli all’amica ed al figlio, il pagamento di somme in favore della ex moglie o della madre anziana o i rimborsi in favore del fratello, per quanto alcune di tali spese fossero non documentate.

2.4. Le critiche e le censure svolte dalle tre figlie, che da circa un ventennio non si curerebbero del padre, essendosi da lui allontanate senza più cercarlo, mirerebbero a finalità conservative di un patrimonio che invece il suo titolare sarebbe libero di “investire” per gratitudine, affetto e riconoscenza verso chi gli è vicino.

2.5. Nella sostanza, l’inabilitando non avrebbe posto in essere quelle condotte abituali, irrefrenabili o eccessive, ricollegabili a motivi futili e testimonianti lo sperpero e l’incapacità di apprezzare il valore del denaro (avendo mantenuto una parte dei suoi averi) e, per quanto egli abbia posto in essere atti economicamente non vantaggiosi lo avrebbe fatto sempre con lucidità e misura senza eccedere per vanità, lusso o sproporzione rispetto a quanto consentitogli, per riconoscenza e per beneficare persone a lui care.

2.6. L’accertato stato di fragilità psicologica, causato dalla disintegrazione della propria famiglia, l’avrebbe visto reagire con lucidità, cercando e trovando e valorizzando altri rapporti affettivi (con i due amici e il figlio G., l’unico rimastogli vicino) nei quali si sarebbe vanamente cercato l’approfittamento, come emerso dall’archiviazione della denuncia di circonvenzione di incapace da parte delle figlie.

3. Inoltre, mancherebbero nel caso anche i presupposti (dell’infermità o della menomazione fisio-psichica impeditiva della capacità di provvedere ai propri interessi) per l’apertura di una amministrazione di sostegno.

4. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione le signore B., con cinque mezzi di impugnazione, illustrati anche con memoria.

5. L’inabilitando ha resistito con controricorso.

6. Il curatore provvisorio ed il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma non hanno svolto difese in questa sede.

 



MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso (violazione dell’art. 342 c.p.c.) le ricorrenti censurano la decisione di appello in quanto il gravame avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile per manifesta violazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione alla mancanza dei requisiti prescritti dalla nuova disciplina introdotta con la novella di cui alla L. n. 134 del 2012.

2. Con il secondo (violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., art. 2729 c.c. ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5) le ricorrenti censurano l’errore commesso dal giudice distrettuale il quale, se da un lato si è richiamato alla CTU (valorizzata dal primo giudice), da un altro avrebbe concluso in senso del tutto opposto. Infatti la CTU aveva sì escluso la malattia psichica ma anche affermato la “fragilità emotiva” dell’inabilitando e concluso nel senso che l’osservato, dopo la disgregazione familiare, aveva cercato sostegno ed accadimento in altri e perciò si era legato ad una coppia di amici, con cui condivideva il tempo, abitando nel loro stesso immobile. La sentenza, mancando di dar conto delle diverse sue conclusioni rispetto alle risultanze peritali, peraltro adottate senza avere la necessaria scienza e senza che l’appellante avesse affermato tali diverse spiegazioni, sarebbe, perciò, incorsa in una palese contraddizione ed in altri vizi, risultando anche perplessa e mancante di una spiegazione delle diverse valutazioni compiute.

3. Con il terzo mezzo (violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 115 c.p.c., comma 1, art. 116 c.p.c., comma 1, art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., art. 415 c.c., comma 2, ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5) le ricorrenti denunciano, in relazione al capovolgimento del giudizio relativo all’accertamento/esclusione della inabilitazione per prodigalità, una pluralità di errori commessi dal giudice di appello e che in estrema sintesi (giustificata dal numero cospicuo di pagine impiegate per illustrarli) possono così sintetizzarsi: a) illogica ed immotivata qualificazione delle affermazioni dell’inabilitando in ordine all’utilizzo delle somme ricavate dalla vendita del proprio compendio immobiliare; b) erronea ed illogica qualificazione della corresponsione della somma di Euro 250.000 alla signora E., come una lucida e consapevole scelta anzichè come spesa disordinata; c) illogica valutazione delle risultanze istruttorie circa la disposizione dei propri averi non oltre i limiti consentiti dalle proprie condizioni essendo risultato solo un residuo di Euro 180.000 rispetto al patrimonio iniziale di circa un milione di Euro; d) illogica omissione della presa d’atto della vendita del compendio immobiliare realizzata in modo frettoloso e dilapidatorio; e) l’illogica motivazione che da un lato riporta le giustificazioni economica e da un altro assume una spiegazione diversa, ispirata ad altre ragioni, come la riconoscenza, l’amicizia e la vicinanza affettiva; f) l’ulteriore illogica motivazione con la quale, pur ammettendo la dismissione del proprio patrimonio immobiliare, si esclude la dilapidazione che quella condotta integrerebbe; g) l’omessa pronuncia sulle altre numerose eccezioni sul reinvestimento delle somme ottenute in ragione delle vendite immobiliari effettuate.

4. Con il quarto (omessa pronuncia, ex art. 112 c.p.c., sull’eccezione di inammissibilità sollevata ai sensi dell’art. 345 c.p.c., commi 2 e 3: art. 360 c.p.c.) si denuncia il mancato esame dell’eccezione relativa alle circostanze di fatto nuove introdotte dall’inabilitando corso del giudizio di appello.

5. Con il quinto (violazione e/o falsa applicazione dell’art. 418 c.p.c., comma 3) si denuncia il rigetto della richiesta subordinata di trasmissione degli atti al giudice tutelare ai fini dell’apertura di una amministrazione di sostegno.

6. Il primo mezzo di cassazione (con il quale le ricorrenti censurano la decisione di appello in quanto il gravame avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile per manifesta violazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione alla mancanza dei requisiti prescritti dalla nuova disciplina introdotta con la novella di cui alla L. n. 134 del 2012) comporta che questa Corte esamini direttamente gli atti della causa, alla stregua del principio di diritto, posto da questa stessa sezione (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15071 del 2012), e secondo cui “Quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio attinente all’applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ. in ordine alla specificità dei motivi di appello, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, restando fermo che l’inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi è legittimamente dichiarata solo allorchè l’incertezza investa l’intero contenuto dell’atto, mentre, allorchè sia possibile individuare uno o più motivi sufficientemente identificati nei loro elementi essenziali, l’eventuale difetto di determinazione di altri motivi, malamente formulati nel medesimo atto, legittima la declaratoria d’inammissibilità dell’appello per questi motivi soltanto e non dell’appello nella sua interezza”.

6.1. La censura è diretta alla richiesta di declaratoria dell’inammissibilità dell’impugnazione in quanto mancante: a) delle “parti del provvedimento” appellate; b) delle “modifiche alla ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice”; c) dell’indicazione “delle circostanze da cui deriva la violazione di legge”; d) della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

6.2. Tuttavia essa si rivela infondata, come emerge sia dalla lettura dell’atto, riprodotto nella sua integralità nell’odierno ricorso avversario, sia dagli stralci di esso, come specificamente riportati in risposta a quelle critiche – nel controricorso.

6.2.1. Dal loro esame si ricava che l’appellante, in quella sede, ha specificamente indicato le ragioni portanti della avversa decisione del Tribunale (“il Tribunale motivava la propria decisione…”; secondo il Tribunale “i presupposti per l’inabilitazione deriverebbero dalla mancata comprensione della destinazione finale delle dismissioni da esso operate”; “quanto alle dismissioni ritenute sospette, il Tribunale ne individua due:…”) che ha criticato, proponendo alla Corte territoriale modifiche alla ricostruzione del fatto, in particolare sostenendo che “gli atti di disposizione (compiuti). sono sensati e non hanno alcun connotato di prodigalità” e che egli “non abbia presentato, nè presenti attualmente alcuna labilità o vulnerabilità emotiva” e che “nessuna sproporzione tra l’uso del denaro e le proprie risorse è ravvisabile”.

6.2.2. In sostanza, la Corte territoriale è stata complessivamente ed appropriatamente investita del riesame di tutta la materia controversa, sostanziandosi le critiche alla pronuncia di inabilitazione, vale a dire ad una statuizione limitativa dello status della persona fisica, per assunta prodigalità, nella richiesta di un accertamento alternativo dei fatti considerati indici di presenza dei presupposti per procedere all’affermazione di quel vulnus.

6.3. Va innanzitutto allora chiarito, in linea generale (come ha già fatto questa Corte (Sez. L, Sentenza n. 6978 del 2013) enunciando il relativo principio, che si condivide pienamente sul piano interpretativo e a cui si deve dare piena continuità), che la regola “della necessaria specificità dei motivi di appello – prevista dall’art. 342 c.p.c., comma 1, e, nel rito del lavoro, dall’art. 434 c.p.c., comma 1, (..) – prescinde da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo sufficiente che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione, ovvero che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, siano anche indicate, oltre ai punti e ai capi formulati e seppure in forma succinta, le ragioni per cui è chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base dell’impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il contenuto e la portata delle relative censure”.

6.4. Con particolare riferimento poi al caso dei giudizi sullo status personae, il fatto costitutivo della decisione giudiziale si rivela, nel suo nucleo essenziale, come assai semplice consistendo, in fondo, nell’affermazione (o, come nella specie, per il giudizio di appello) nella negazione della sussistenza della causa limitativa o ablativa della stessa capacità di agire.

6.5. Tale limitato compito, peraltro agevolato anche dalla previsione obbligatoria di specifiche attività istruttorie (art. 419 c.c.), non è particolarmente complesso, sicchè esso risulta essere stato anche assolto dall’appellante con il suo, per quanto non ampiamente articolato, atto di gravame (proposto con successo).

7. La natura stessa del giudizio limitativo dello status personae, di cui si è detto sopra, ai p.p. 6.4. e 6.5., è in grado di dar conto altresì delle conclusioni raggiunte dalla Corte territoriale, anche in evidente autonomia rispetto alle difese delle parti (lamentate come diverse dalle qualificazioni date dal giudice distrettuale: secondo mezzo di cassazione) o a fatti nuovi introdotti dall’inabilitando nel corso del giudizio di gravame (quarto motivo di ricorso), avendo la legge avuto cura di precisare che tale tipo di giudizio deve essere svolto “procedendo all’esame dell’inabilitando” (art. 419, comma 1), facendosi eventualmente assistere da un consulente, disponendo mezzi istruttori utili, interrogando i parenti prossimi e assumendo le necessarie informazioni (art. 419, comma 2).

7.1. In sostanza, i poteri ufficiosi esercitabili dal giudice per assicurarsi l’effettiva giustificazione di un così rilevante esito limitativo della capacità di agire delle persone fisiche fanno escludere che i fatti acquisiti, nel corso del giudizio di merito, debbano essere raccolti, valorizzati e valutati esclusivamente attraverso il filtro delle allegazioni e delle difese svolte dalle parti, emergendo dalla richiamate previsioni di legge il ruolo ufficioso del giudice incaricato di quella verifica.

7.2. Gli stessi ulteriori fatti allegati nel corso del giudizio di gravame (dei quali tuttavia, inammissibilmente, non si predica neppure la decisorietà ai fini delle risultanze del giudizio) non sono di per sè da escludere in limine ove, una più esatta ricostruzione del fatto posto a base dell’accertamento, ne consenta l’esame nel contraddittorio delle parti.

7.3. In sostanza la presenza di poteri ufficiosi permette al giudice di completare il suo accertamento anche indagando ed accertando fatti che non siano stati allegati o acquisiti nel corso del giudizio di primo grado, imponendolo le regole probatorie specificamente dettate per il giudizio volto alla pronuncia limitativa dello status della persona.

7.4. In questo quadro, la Corte (Sez. 1, Sentenza n. 1023 del 1982) ha già chiarito, ad esempio, che “Nel giudizio di interdizione o di inabilitazione i parenti e gli affini, che a norma dell’art. 712 cod. proc. civ. devono essere indicati nel ricorso introduttivo, non hanno veste di parti in senso tecnico-giuridico, bensì svolgono funzioni consultive, essendo fonti di informazioni per il giudice, conseguentemente la mancata notifica del ricorso ad alcuni dei predetti, a seguito dell’omessa indicazione degli stessi nel ricorso, mentre non determina alcuna nullità del procedimento, qualora a tale omissione si sia ovviato nel corso dell’istruttoria, può costituire motivo di impugnazione soltanto quando la persistente omissione concerna un congiunto verosimilmente in grado di fornire al giudice informazioni tali da far decidere il giudizio diversamente”.

7.4.1. E l’omissione della consultazione di una fonte informativa se “può costituire motivo di impugnazione soltanto quando la persistente omissione concerna un congiunto verosimilmente in grado di fornire al giudice informazioni tali da far decidere il giudizio diversamente”, fa comprendere come le stesse possono essere acquisite e valutate, anche d’ufficio, in ogni momento del giudizio di merito, purchè venga assicurato il pieno contraddittorio tra le parti.

8. Nel merito, il terzo mezzo di ricorso (sia pure affermando l’esistenza di vizi logici motivazionali) pone una articolata istanza di ripetizione della valutazione delle risultanze poste a base dell’accoglimento del gravame, che in questa sede, in riferimento alle sentenze (come quella oggetto del presente giudizio) pubblicate oltre il termine di trenta giorni successivo all’entrata in vigore della L. n. 134 del 2012 (che ha convertito il D.L. n. 83 del 2012), s’infrange sull’interpretazione così chiarita dalle SU civili (nella Sentenza n. 8053 del 2014): la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

8.1. I prospettati vizi di illogicità, pertanto, si rivelano come richieste di nuove qualificazioni giuridiche negoziali ed apprezzamenti delle risultanze processuali che non sono più consentite.

8.2. In ogni caso: le qualificazioni date dall’inabilitando in ordine all’utilizzo delle somme ricavate dalla vendita del proprio compendio immobiliare è potere giudiziale e non della parte, sia in sè e per sè sia in riferimento al complesso del patrimonio ed alla sua trasformazione in liquidità, restando pienamente coerente la valutazione compiuta dalla Corte territoriale, che ha ricostruito la strategia di spesa tenuta dall’inabilitando alla luce delle nuove (la coppia degli amici) e vecchie (il figlio G.) relazioni affettive, conseguite o consolidatesi all’esito della rovina degli altri rapporti familiari.

8.3. Del resto, la Corte territoriale ha mostrato di aver bene assimilato l’insegnato, tanto autorevole quanto risalente, espresso da questa Corte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6805 del 1986) secondo cui la prodigalità, cioè un comportamento abituale caratterizzato da larghezza nello spendere, nel regalare o nel rischiare, eccessiva rispetto alle proprie condizioni socio-economiche ed al valore oggettivamente attribuibile al denaro, configura autonoma causa di inabilitazione, ai sensi dell’art. 415 c.c., comma 2, indipendentemente da una sua derivazione da specifica malattia o comunque infermità, e, quindi, anche quando si traduca in atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita, purchè sia ricollegabile a motivi futili (ad esempio, frivolezza, vanità, ostentazione del lusso, disprezzo di coloro che lavorano, dispetto verso vincoli di solidarietà familiare). Ne discende che il suddetto comportamento non può costituire ragione d’inabilitazione del suo autore, quando risponda a finalità aventi un proprio intrinseco valore (nella specie, aiuto economico verso persona estranea al nucleo familiare, ma legata da affetto ed attrazione).

8.4. La Corte ha dimostrato che, nel caso in esame, la redistribuzione della propria ricchezza a persone a lui vicine è stata una risposta positiva e costruttiva al naufragio della propria famiglia (salvo il figlio G.): i relativi riconoscimenti hanno seguito questa stessa logica premiale e riconoscitiva, allo stesso modo di quanto questa Corte ebbe a rilevare nel caso appena richiamato, esaminato nel 1986.

8.5. A quel principio i diritto va, dunque, data continuità anche in riferimento alla fattispecie concreta considerata in questa sede.

9. Il quinto ed ultimo mezzo (con il quale si lamenta il rigetto della richiesta subordinata di trasmissione degli atti al giudice tutelare, ai fini dell’apertura di una amministrazione di sostegno), solo astrattamente ammissibile (alla luce del principio di diritto (Sez. 1, Sentenza n. 12466 del 2007) secondo cui “nel corso del giudizio di interdizione o inabilitazione, spetta al giudice di merito di valutare, anche d’ufficio, ai sensi della L. n. 6 del 2004, art. 6, se trasmettere gli atti al giudice tutelare perchè valuti l’opportunità di nominare l’amministratore di sostegno; di tale scelta, tuttavia, egli deve dare conto in motivazione, stante la finalità della nuova normativa di sacrificare nella minor misura possibile la capacità di agire delle persone”), richiedendo a questa Corte un riesame delle valutazioni compiute dal giudice di merito, deve essere dichiarato inammissibile.

10. Il ricorso, complessivamente infondato, va pertanto respinto e le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, poste a carico delle ricorrenti in solido.

PQM

P.Q.M.Respinge il ricorso e condanna le ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali di questa fase che si liquidano in Euro 5.200,00, oltre spese forfettarie ed accessori di legge.

Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 1 sezione civile della Corte di Cassazione, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2017