Con riferimento alle cd. mafie straniere operanti in Italia, l’organo dell’accusa talvolta pretende di dimostrarne la natura di sodalizi sussumibili nel disposto dell’art. 416-bis cod. pen. attraverso la notoria appartenenza ad una tal struttura sedente in un tal Paese. Non viola il divieto di “reformatio in peius” previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che apporta per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore. (Fattispecie in cui la Corte di appello riqualificava il reato più grave contestato ex art. 416-bis cod. pen. ai sensi dell’art. 416, commi secondo e quinto, cod. pen., per poi procedere alla rideterminazione della pena per la continuazione, irrogando per i reati satellite aumenti superiori a quelli stabiliti dal primo giudice). RITENUTO IN FATTO 1. Con l’impugnata sentenza la Corte d’Appello di Venezia, in parziale accoglimento dei gravami difensivi,riformava la sentenza emessa in esito a giudizio abbreviato dal Gup del locale Tribunale e, in particolare: – riqualificava il reato ex art. 416 bis cod. pen. ascritto al capo 105 ai sensi dell’art. 416 c.p., commi 2 e 5, riconoscendo agli imputati V.M., Cr.Se. e B.V. la qualifica di promotori ed organizzatori; – escludeva per tutti i reati fine l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e quella di cui all’art. 112 c.p., comma 1, n. 3, ritenendo – invece – con riguardo alle posizioni di V., Cr. e B. quella di cui all’art. 112 c.p., comma 1, n. 2; – riteneva per tutte le ipotesi di estorsione in ordine alle quali era intervenuta pronunzia di responsabilità la sola aggravante del numero delle persone ex art. 628 c.p., comma 3, n. 1; – rideterminava le pene inflitte nella misura che segue: a) Bi.Pa.: anni tre di reclusione ed Euro 800,00 di multa, previa assoluzione dal reato sub 60 per insussistenza del fatto ed assorbito il capo 64 nel 19; b) B.V.: anni 6 mesi 10 di reclusione ed Euro 2.600,00 di multa a seguito di declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati di cui ai capi 78 e 80 e assorbimento nel delitto sub 21 dei fatti contestati ai capi 22 e 23 nonchè ritenuta la continuazione con i fatti irrevocabilmente giudicati con sentenza del Gup del Tribunale di Brescia del 11/6/2009; c) Bu.Mi.: anni 5 mesi 8 di reclusione per i delitti sub 2) (nello stesso assorbiti i fatti contestati ai capi 5, 7 e 8) 4, 16, 20, 27; d) C.S.: anni 4 mesi 9 giorni 10 di reclusione ed Euro 1.600,00 di multa a seguito di assoluzione in ordine ai capi 11, 44, 46, 47, ritenuto più grave il reato sub 1) e qualificato il fatto sub 99 alla stregua di tentativo; e) Cr.Se.: anni 5 mesi 5 gg 10 di reclusione ed Euro 1.400,00 di multa, previa assoluzione in relazione ai capi 4, 46, 48, 50, 60, 90; f) D.V.: anni 2 mesi 6 di reclusione ed 1.000,00 di multa a titolo di continuazione sulla maggior pena inflitta per i fatti giudicati con sentenza della Corte d’Appello di Venezia in data 17/2/2014, previa declaratoria d’improcedibilità dell’azione per il delitto sub 33); g) L.I.: anni 4 mesi 7 gg 10 di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa, previa assoluzione dai reati ascrittigli ai capi 93, 94, 100, 104; h) M.V.: anni 3 gg 20 di reclusione ed Euro 800,00 di multa in esito all’assoluzione in relazione ai capi 40, 85, 102 e previa riqualificazione delle condotte di falso ex artt. 110,48,477 cod. pen., con assorbimento dei reati di cui agli artt. 483 e 494 c.p.; i) S.L.:anni 4 mesi 7 gg 10 di reclusione ed Euro 1600,00 di multa, previa assoluzione in relazione ai capi 11 e 71, e declaratoria di estinzione per la condotta partecipativa ex art. 416 cod. pen; l) S.V.: anni 4 mesi 6 di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa, previa assoluzione per il delitto di cui al capo 11 e declaratoria di estinzione per maturata prescrizione della partecipazione all’associazione per delinquere; m) Sc.Ni.: anni 3 mesi 8 di reclusione ed Euro 1.400,00 di multa, previa assoluzione dai reati sub 29, 50, 61, 90 e concessione delle circostanze attenuanti generiche. 1.1 All’esito delle indagini preliminari e dell’esercizio dell’azione penale nei confronti di 77 imputati, il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale distrettuale di Venezia disponeva la separazione dall’originario procedimento delle posizioni degli imputati sottoposti a misura custodiale, i quali formulavano richiesta di definizione nelle forme del giudizio abbreviato degli addebiti loro mossi, concernenti l’appartenenza con ruolo apicale o di meri partecipi ad un’associazione di stampo mafioso, armata e transnazionale, denominata (OMISSIS), originaria dei territori compresi nell’ex (OMISSIS), in particolare la (OMISSIS), ed operante anche in Italia (specialmente nelle zone di (OMISSIS)), dedita alla commissione di estorsioni in danno di connazionali, all’uopo avvalendosi della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo, ma anche al controllo del traffico di sostanze stupefacenti e al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nonchè i reati fine a ciascuno addebitati in rubrica. In dettaglio, le condotte estorsive si concretizzavano in insistenti richieste di pagamento di somme di danaro nei confronti di proprietari e conducenti dei pulmini utilizzati per il trasporto di persone e merci da e per la (OMISSIS) al fine di consentirne il parcheggio in aree poste in zone controllate dal sodalizio, con ricorso a violenze verbali e fisiche in caso di diniego, e i capi fazione (detti (OMISSIS)) erano dediti anche a rapine in danno di spacciatori nordafricani per procacciarsi partite di droga da cedere a terzi. Il primo giudice riteneva la fondatezza della prospettazione accusatoria con riguardo alla sussistenza del delitto associativo come contestato al capo 105 (esclusa l’aggravante della trans nazionalità), evidenziando che il sodalizio denominato (OMISSIS) ha struttura verticistica con suddivisione in gruppi criminali capeggiati da un (OMISSIS), cui è demandata la designazione dei (OMISSIS) con compiti di vigilanza del territorio di appartenenza, in ciò coadiuvati da uno o più associati, detti smotrasci, mentre i gregari sono convenzionalmente denominati (OMISSIS) (“(OMISSIS)”). Ogni gruppo ha autonomia economica in quanto dotato di una cassa (c.d. (OMISSIS)) in cui confluiscono i proventi delle attività illecite, utilizzati per far fronte alle esigenze dei consociati, ad es. in caso di detenzione, e deve attenersi ad un sistema di rigide regole, la cui inosservanza è pesantemente sanzionata. Argomentava, quindi, che la capacità intimidatoria propria della compagine poteva evincersi dalla notorietà dell’associazione e dalla pericolosità dei suoi appartenenti tale da indurre proprietari e conducenti dei pulmini moldavi alla corresponsione di somme di danaro sulla base delle sole richieste verbali, ricorrendo alle minacce esplicite e alla violenza solo in caso di rifiuto mentre talora erano le stesse vittime a rivolgersi al (OMISSIS) per ottenere la disponibilità di un parcheggio. Secondo la ricostruzione del Gup l’esistenza e l’operatività dell’associazione (OMISSIS) emerge dagli elementi acquisiti dagli investigatori a mezzo delle attività di collaborazione con le forze di polizia estere e, in particolare, dalla nota informativa della Direzione per il contrasto al crimine organizzato della Repubblica Moldava, dagli incontri interforze tra organi di polizia della Unione Europea che hanno evidenziato la presenza della compagine in vari paesi ((OMISSIS)) nonchè dalla pendenza presso varie Procure italiane di indagini sul fenomeno criminale. 1.2 A diverse conclusioni perveniva la sentenza impugnata (pag 64 e segg.) che, dopo aver escluso l’esistenza in atti di dati probatori idonei ad affermare l’esistenza dell’associazione sovranazionale ed in esito alla ricognizione degli elementi tipici della fattispecie ex art. 416 bis cod. pen., dichiarava di aderire “al consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui il proprium dell’associazione mafiosa è la sua proiezione esterna, il radicamento nel territorio in cui essa vive e non già la succubanza c.d. interna cui sono soggetti gli affiliati verso i loro stessi capi”. Evidenziava, in particolare, che ” l’esistenza dell’associazione (OMISSIS) è stata esclusivamente affermata dalla polizia giudiziaria in via generale e con riferimenti generici a documenti internazionali”, richiamando l’assenza di pronunzie giurisdizionali interne ed estere che ne attestassero l’esistenza e la mancanza di riferimenti al sodalizio da parte di testi e pp.oo. Asseriva, quindi, che – anche a voler ritenere autonoma l’associazione radicatasi localmente – non risultava che la stessa avesse adottato le metodologie operative proprie di un’associazione mafiosa “non potendosi inferire tale qualità..dalla natura e dalla reiterazione delle condotte criminose poste in essere”, ribadendo che nel caso a giudizio non era dato ravvisare quella forza intimidatrice che promana dall’esistenza stessa dell’organizzazione alla quale corrisponde un assoggettamento nell’ambiente sociale e, quindi, una situazione di generale omertà, e ritenendo integrata, in presenza degli elementi costitutivi di base, la fattispecie di associazione per delinquere semplice. 2. Ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Venezia, deducendo: 2.1 la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo all’intervenuta riqualificazione della fattispecie ex art. 416 bis cod. pen. come associazione per delinquere semplice e all’esclusione dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7. Osserva il P.m. impugnante che la Corte territoriale ha escluso la ravvisabilità nei fatti di un’associazione di stampo mafioso, argomentando – da un lato – circa la mancanza elementi di prova sufficienti in ordine all’esistenza dell’associazione denominata (OMISSIS), considerata l’assenza di pronunzie giurisprudenziali al riguardo e il difetto di espliciti richiami alla stessa da parte di testi, pp.oo. ovvero degli stessi imputati, sicchè non sussisterebbero i presupposti per considerare il gruppo operante in Italia emanazione della compagine madre; dall’altro, per difetto degli elementi tipici della mafiosità, enucleati sulla scorta di una rassegna giurisprudenziale della fattispecie. Siffatto apprezzamento risulterebbe illogico e contraddittorio alla luce delle emergenze processuali in atti poichè l’esistenza della mafia di origine russa è un fenomeno socialmente e culturalmente acclarato tanto da assurgere a fatto notorio e risultano precedenti giurisprudenziali che forniscono indicazioni chiare circa il carattere mafioso di associazioni criminali guidate da soggetti di origine moldava. Ritiene il ricorrente che i dialoghi captati tra soggetti appartenenti al sodalizio, le modalità di comportamento,la terminologia usata rispecchiano le caratteristiche pacificamente riconosciute a livello generale all’organizzazione (OMISSIS), replicandone l’assetto organizzativo che vede il capo cosca detto (OMISSIS) affiancato da (OMISSIS) (capo area) e (OMISSIS) (capo locale) nonchè gestore di una cassa comune ((OMISSIS)) in cui confluiscono le percentuali dovute all’associazione da parte dei sodali in base alle attività criminali svolte. In ogni caso, sia che si consideri il gruppo come filiazione dell’organizzazione madre che avente caratteristiche autonome,la Corte territoriale avrebbe impropriamente ritenuto l’assenza di indici di mafiosità, assumendo in maniera apodittica che il gruppo esprimeva una bassa potenzialità intimidatrice ed escludendo la condizione di assoggettamento e di omertà, nonostante le condotte ascritte rivelino la natura di essenziale aggressione alla realtà economica e sociale della comunità moldava di Verona ed altri luoghi limitrofi, derivante dalla costante e continua sottoposizione di membri della stessa alla contribuzione in favore dell’associazione, seppur per cifre singolarmente non consistenti. La sentenza impugnata ha trascurato di considerare che il gruppo criminale controllava tutti i movimenti di persone e merci da e verso la (OMISSIS), che le vittime erano pienamente consapevoli dell’associazione e acquiescenti al fatto di dover pagare per le soste, che le denunzie rese sono state originate da situazioni di personale esasperazione e denotano sovente genericità e reticenza nell’esposizione dei fatti, cui non è estranea la capacità di taluni imputati di condizionare i testi (v. capo 97), che il gruppo era dotato di armi e alcuni dei membri erano dediti anche ad altre attività di tipo predatorio ed esistevano rigide regole di comportamento cui i sodali dovevano attenersi. Hanno, inoltre, proposto ricorso per Cassazione gli imputati, ad eccezione di V.M., deducendo ciascuno i vizi di seguito enunziati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.. 3. Bi.Pa., in proprio; 3.1 la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), per errata applicazione dell’art. 629 cod. pen. nel punto in cui è stata ritenuta integrata la fattispecie d’estorsione in assenza dei presupposti della violenza e della minaccia nonchè la manifesta illogicità, contraddittorietà e la carenza di motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza del delitto di estorsione sub 19). Assume il ricorrente che la sentenza impugnata si sia limitata a richiamare quella di primo grado nella parte in cui ricostruisce l’attività illecita in danno dei coniugi Bo., omettendo di rilevare che alcuna condotta violenta o minacciosa risulta posta in essere dal prevenuto nei confronti delle pp.oo. e non considerando che il metus dell’associazione mafiosa (caducata dalla pronunzia impugnata) aveva costituito il perno valorizzato dal Gip per ritenere integrato l’elemento oggettivo della minaccia, anche alla luce del tenore dell’incolpazione che postula in termini organici l’implicita pressione psicologica derivante dalla riconducibilità della richiesta di ” pizzo” alla consorteria mafiosa; 3.2 la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione all’art. 629 cod. pen. per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nel punto in cui la Corte d’Appello con riferimento al capo 19) ha fondato l’affermazione di responsabilità sulla base di una ricognizione di personale, mai avvenuta, da parte dei denunzianti Bo.Si. e Bo.Iu. dal momento che le foto dell’imputato non sono mai state inserite nei fascicoli fotografici utilizzati dalla P.g. In difetto del cennato riconoscimento non sussistono elementi atti a provare la partecipazione del ricorrente alle condotte estorsive contestate. 4. B.V., in proprio; 4.1 la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), per erronea applicazione della legge penale in ordine alla quantificazione della pena e conseguente inosservanza del divieto di reformatio in pejus. Osserva il ricorrente che la Corte d’appello ha violato il divieto di reformatio in pejus con riguardo agli aumenti irrogati a titolo di continuazione, determinandoli in misura superiore a quelli operati dal Gup nella sentenza di primo grado. In particolare, il giudice d’appello effettuava aumenti a titolo di continuazione nella misura di mesi 3 di reclusione oltre la multa per sei episodi di estorsione consumata (capi 72, 73, 74, 75, 76, 77) laddove il Gup aveva fissato l’aumento di pena nella misura di mesi uno di reclusione per ciascun reato e,analogamente, determinava in aumento le frazioni di pena relative alla fattispecie di rapina di cui ai capi 31, 32, 36, 91; 4.2 la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni eteroaccusatorie rese dal coimputato (la cui posizione risulta stralciata) J.F. quanto ai reati sub 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77 e correlata contraddittorietà della motivazione. Secondo il ricorrente la Corte territoriale avrebbe ritenuto l’attendibilità intrinseca del dichiarante in contrasto con le emergenze probatorie evidenziate nell’atto di appello, concernenti sia le circostanze dell’avvio della collaborazione con le Forze dell’Ordine sia lo spessore criminale del dichiarante, trattandosi del soggetto che gestiva le attività illecite presso le ex cartiere di (OMISSIS) e che non esitava a far arrestare i complici al fine di mantenere il controllo della zona, sia l’animosità nutrita nei confronti del ricorrente, trascurando di rilevare la genericità delle propalazioni, l’assenza di indicazioni sui fornitori di stupefacenti a lui certamente noti e l’assenza di riscontri. 5. Bu.Mi., in proprio; 5.1 la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), per erronea applicazione della legge penale in ordine alla quantificazione della pena e al divieto di reformatio in pejus. Assume il ricorrente che la Corte territoriale abbia violato il divieto di reformatio in pejus nella quantificazione degli aumenti irrogati a titolo di continuazione sia con riguardo alle fattispecie di estorsione (capi 20, 28, 58 e 68) che alle rapine consumate e tentate ascritte sub 4, 9, 20, 27, 56, 58, 68; 5.2 la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), in ordine al mancato riconoscimento del vincolo della continuazione con i fatti di reato di cui alla sentenza n. 736/2010, emessa dal Gip presso il Tribunale di Verona, concernente un’ipotesi di tentata estorsione commessa in (OMISSIS) in data (OMISSIS) ai danni di un autotrasportatore moldavo indicato in tale Ba.Si., stessa p.o. dei reati contestati ai capi 4 e 14 del presente procedimento. 6. C.S. (Avv. Leva Massimo); 6.1 la carenza assoluta di motivazione quanto alla reputata sussistenza delle ipotesi di estorsione contestate nonchè circa la partecipazione dell’imputato all’associazione per delinquere di cui al capo 105. Secondo il ricorrente il richiamo della sentenza impugnata al discorso giustificativo della sentenza di primo grado si risolve in difetto di motivazione con riguardo alla condanna per le ipotesi estorsive e nell’omessa risposta alle doglianze esposte nell’atto di appello. Infatti, mentre nella prima sentenza le ipotesi di estorsione contestate costituivano il portato della forza di intimidazione di un consesso di stampo mafioso, in aderenza alle condotte descritte in rubrica, a seguito della qualificazione dell’addebito associativo alla stregua dell’art. 416 cod. pen. risultava indispensabile un percorso argomentativo autonomo in punto di sussistenza della minaccia o della violenza finalizzata alla coartazione a scopo di profitto delle pp.oo.. La Corte d’Appello, pur a fronte di specifica devoluzione in ordine alla ricorrenza delle ipotesi di estorsione ascritte al prevenuto, ha omesso ogni valutazione sull’erroneo presupposto che le stesse non avessero costituito oggetto di gravame. Nè la sentenza impugnata ha fornito risposta ai rilievi difensivi in ordine alla partecipazione dell’imputato al sodalizio criminoso, dal momento che le pp.oo. hanno riferito dell’appartenenza del C. ad un distinto gruppo criminale moldavo (facente capo ai fratelli Le., detto (OMISSIS)) e ha analogamente omesso di spiegare perchè la commissione dei reati contestati è stata ritenuta indice di una partecipazione all’associazione piuttosto che di un mero concorso in ipotesi di estorsione continuata; 6.2 la carenza assoluta di motivazione in ordine alla ricorrenza dell’aggravante delle più persone riunite di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, avendo la Corte territoriale omesso di giustificare le ragioni alla base di siffatta valutazione che si pone in contrasto con l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità; 6.3 l’illegalità della pena inflitta in continuazione in violazione del divieto di reformatio in pejus. 7. Cr.Se., in proprio; 7.1 la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), per errata applicazione dell’art. 629 cod. pen. nel punto in cui è stata ritenuta la fattispecie di estorsione in assenza dei presupposti della violenza e della minaccia nonchè la manifesta illogicità, contraddittorietà e carenza di motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza dei delitti di estorsione di cui ai capi 19 e 92. Il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto la responsabilità del Cr. in ordine ai fatti di estorsione in danno dei coniugi Bo. e di Mu.Se., limitandosi a richiamare la motivazione della sentenza di primo grado e senza rilevare l’assenza di specifiche condotte violente e minacciose nei confronti delle pp.oo.. Segnala, inoltre, che a seguito dell’avvenuta riqualificazione del delitto associativo sub 105 in associazione per delinquere semplice deve ritenersi venuto meno l’elemento strumentale costituito dalla pressione psicologica promanante dalla specifico metodo mafioso sicchè la Corte avrebbe dovuto seguire un autonomo percorso giustificativo rispetto alla sentenza di primo grado, individuando specificamente gli elementi di fatto espressivi di violenza o minaccia atti a coartare la volontà delle vittime. 8. D.V. (Avv.ti Cazzola Giampaolo e Pippa Cristiano); 8.1 l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo al giudizio di responsabilità del D. in relazione alla fattispecie associativa e ai capi 31, 32, 34 dell’imputazione. I difensori lamentano che la Corte territoriale ha omesso di dar conto degli elementi che dimostrano la partecipazione del ricorrente al sodalizio criminoso, limitandosi ad un generico richiamo alle fonti già censite per altre posizioni e ad evidenziare la circostanza che l’imputato avrebbe agito alle dirette dipendenze del Bu. quale collettore delle somme frutto delle condotte estorsive in danno di Cr.Vi., G.S. e U.I.. Mancherebbe nel provvedimento gravato qualsiasi indicazione circa il contributo materiale prestato dall’imputato all’associazione e parimenti sul dolo, carenza tanto più rimarchevole ove si tenga conto del ruolo marginale del D. che si era limitato ad accompagnare alcuni connazionali nella convinzione che gli stessi vantassero dei diritti sull’area di parcheggio grazie all’esistenza di un contratto d’affitto. Inoltre, la Corte – pur avendo ritenuto la partecipazione del ricorrente al sodalizio – ha incongruamente precisato che la “diversificazione tra intraneo o concorrente” era destinata a riflettersi in “una valutazione peggiorativa della sua posizione processuale, in particolare in punto di trattamento sanzionatorio”, introducendo una valutazione poco perspicua e comunque contraddittoria mentre alcuna risposta ha fornito all’obiezione difensiva che metteva in luce come, a fronte di un sodalizio ritenuto operante fino a luglio 2011, siano ascritti al ricorrente supposti reati-fine commessi in epoca successiva ovvero nell’agosto e ottobre dello stesso anno. Infine, la Corte territoriale ha omesso ogni motivazione in ordine alla sussistenza dei reati fine nonostante la difesa avesse espressamente segnalato che il fatto contestato al capo 31 riguardava un pregresso contenzioso tra la p.o. Cr.Vi. e i fratelli D. mentre con riguardo agli altri reati le pp.oo. non avevano riferito della presenza del prevenuto nell’area di parcheggio; 8.2 la violazione del divieto di reformatio in pejus e la mancanza di motivazione in ordine alla quantificazione degli aumenti di pena ex art. 81 cod. pen., avendo la Corte d’Appello fissato la pena base in relazione al delitto ascritto al capo 31, applicando un aumento a titolo di continuazione per le due tentate estorsioni contestate ai capi 32 e 34 di mesi 4 di reclusione ed Euro 400,00 di multa, superiore a quello praticato dal primo giudice pari a mesi uno di reclusione per ciascuna ipotesi, in violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3; 8.3 la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4 in considerazione del fatto che le richieste estorsive avevano riguardato esigue somme di danaro, variabili da 50 a poche centinaia di Euro, ovvero la dazione di generi alimentari, profilo in ordine al quale risulta totalmente omessa la motivazione; 9. L.I., in proprio; 9.1 la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) e c), in relazione all’art. 416 cod. pen.. Secondo le deduzioni del ricorrente la Corte territoriale ha ritenuto che il L. fosse membro di un’associazione di moldavi capeggiata da B.V., Cr.Se., M.V. e V.M. dedita alla commissione di estorsioni, desumendo la partecipazione esclusivamente sulla base dei singoli episodi delittuosi, in assenza di prova circa un collegamento tra tutti i pretesi membri del sodalizio e della volontà di far parte dello stesso. In particolare, la sentenza impugnata con un automatismo probatorio del tutto illogico ha affermato l’esistenza e l’operatività dell’associazione senza delimitare il confine tra reato associativo e mero concorso di persone nel reato, nonostante l’espressa censura posta al riguardo; 9.2 la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), con riferimento agli artt. 628,629 cod. pen. e all’art. 56 c.p. e art. 56 c.p., comma 3. Lamenta il ricorrente che la sentenza impugnata in relazione alla tentata estorsione ascritta al capo 37, consumata in danno di P.P., si sia limitata a riprodurre le argomentazioni del giudice di primo grado,trascurando di analizzare il gravame difensivo sul punto che evidenziava come la p.o. si fosse rivolta a V. e T. unicamente per conoscere dove e come parcheggiare a (OMISSIS) mentre il L. si era limitato ad accompagnare il Pi. a (OMISSIS) in assenza di qualsivoglia condotta suscettibile di integrare la fattispecie estorsiva. Il ricorrente denunzia, altresì, che la Corte ha omesso ogni motivazione in ordine alla richiesta formulata nei motivi d’appello tendente al riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 56 c.p., comma 3 e analoga pretermissione dei motivi spesi in riferimento ai capi 95 e 103 della rubrica; 9.3 la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), avendo la sentenza impugnata omesso ogni considerazione delle doglianze intese al riconoscimento della circostanza ex art. 62 c.p., n. 4 e delle attenuanti generiche in misura prevalente rispetto alle aggravanti contestate. 10. M.V. (Avv. D’Errico Roberto); 10.1 La violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Assume il ricorrente che la Corte territoriale ha trascurato una valutazione specifica e determinata degli elementi probatori che sostanzierebbero la responsabilità del M. in ordine ai reati ascrittigli ai capi 93 e 41 della rubrica, senza dar conto delle ragioni della reiezione del gravame difensivo; 10.2 la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, argomentato con integrale richiamo alla sentenza di primo grado; 11. S.L. e S.V. (Avv. Leva Massimo); 11.1 La carenza assoluta di motivazione quanto alla reputata sussistenza delle ipotesi di estorsione ascritte ai prevenuti. Osservano i ricorrenti che la sentenza impugnata ha assolto l’onere motivazionale attraverso il richiamo per relationem della complessiva ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice, omettendo di dare risposta alle doglianze esposte nell’atto di appello e senza tener conto che la prospettazione d’accusa faceva leva sulla forza intimidatrice della postulata associazione di stampo mafioso per giustificare la coartazione delle singole ipotesi estorsive, paradigma non più utile a giustificarne l’esistenza a seguito della riqualificazione del capo 105; 11.2 la carenza assoluta di motivazione in ordine alla ricorrenza dell’aggravante delle più persone riunite di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1 contestata in relazione a tutte le ipotesi di estorsione ascritte ai prevenuti,avendo la sentenza impugnata mancato di giustificare in relazione a ciascun addebito la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e al momento dei fatti (l’aggravante, in particolare, non sarebbe ravvisabile per l’ipotesi di cui al capo 2, reputata più grave per l’imputato S.L., e per il reato sub 5, ritenuto di maggiore gravità per S.V.); 11.3 il vizio della motivazione con riguardo alla denegata concessione delle circostanze attenuanti generiche, giustificata dalla Corte territoriale con valutazione cumulativa che non tiene conto delle specifiche deduzioni difensive relative ai ricorrenti e che incongruamente parifica le posizioni di promotori e partecipi del sodalizio a prescindere dal numero delle contestazioni e dalle modalità delle singole condotte; 11.4 l’illegalità della pena inflitta in continuazione in quanto la Corte territoriale, a seguito della riqualificazione del reato associativo di cui al capo 105, determinava gli aumenti irrogati a titolo di continuazione in misura maggiore rispetto alla quantificazione effettuata dal Gup, così operando una reformatio in pejus; 12. SC.Ni., in proprio; 12.1 la violazione del divieto di reformatio in pejus con riguardo agli aumenti operati a titolo di continuazione in misura maggiore rispetto alla quantificazione effettuata dal primo giudice sia con riguardo alle fattispecie di estorsione che di rapina. CONSIDERATO IN DIRITTO 13. Il ricorso del P.G. è fondato e merita accoglimento. Invero, la sentenza impugnata ha disconosciuto la sussistenza del contestato delitto di associazione di stampo mafioso ritenendo, da un lato, non provata l’esistenza dell’organizzazione madre denominata (OMISSIS) e, dall’altra, negando nella vicenda a giudizio la ravvisabilità di indici di sicura mafiosità. L’apparato argomentativo posto a fondamento dell’operata riqualificazione del sodalizio contestato al capo 105, tuttavia, presta il fianco a censura sotto il profilo dell’adeguatezza e logicità delle ragioni esposte. Del tutto condivisibile s’appalesa la valutazione effettuata dalla Corte territoriale in ordine al difetto di prova certa circa l’esistenza e i caratteri dell’organizzazione madre, non essendo all’uopo sufficienti i frammentari dati richiamati in sentenza, nè potendosi riconoscere pregio all’evocazione del notorio da parte del P.g. impugnante. Il notorio, come fatto attraverso cui si perviene alla certezza giuridica, per essere utilizzabile nel processo penale deve costituire una conoscenza condivisa dalla generalità dei cittadini o, comunque, dai soggetti qualificati appartenenti ad un determinato ambiente, requisiti che nella specie non paiono ravvisabili. La giurisprudenza di legittimità è orientata a ritenere, in particolare, che laddove la notorietà involga apprezzamenti di natura squisitamente giuridica possa trovare fondamento in precedenti pronunzie giudiziarie di natura irrevocabile sicchè, quando l’oggetto di prova sia costituito dall’esistenza di un’associazione mafiosa ex art. 416-bis cod. pen., la stessa ben può desumersi in modo certo dalle decisioni irrevocabili dell’autorità giudiziaria, che costituiscono prova in ordine alla ricostruzione delle vicende accertate in giudizio, ai sensi dell’art. 238bis cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 50057 del 11/11/2009 Gullo, Rv. 245831, n. 34491 del 14/06/2012, Montagno Bozzone e altri, Rv. 253653), pur richiedendo che il nuovo giudizio verta su fatti avvenuti nelle medesime realtà territoriali, non emerga una variazione delle finalità perseguite dal sodalizio, vi sia una, quanto meno parziale, identità soggettiva tra la formazione storica e la attuale e che il tempo trascorso non sia di entità tale da aver determinato nella memoria dei consociati l’oblio della connotazione mafiosa del gruppo storico (Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, P.G. in proc. Pesce e altri, Rv. 269039). Nel caso a giudizio le emergenze relative all’esistenza del sodalizio (OMISSIS) in (OMISSIS) e in altri paesi non attingono un’evidenza tale da consentire di configurare l’associazione nazionale come un gruppo delocalizzato, emanazione dell’organizzazione estera e alla stessa organicamente riferibile con la conseguenza che la stessa deve essere apprezzata come autonoma consorteria criminale. 13.1 Tuttavia, la Corte territoriale, dopo aver dato atto dell’assenza di elementi probatori idonei a ritenere l’esistenza di un’associazione di matrice moldava di cui il sodalizio italiano in tesi costituirebbe diretta derivazione, ha attestato la propria valutazione in punto di insussistenza del delitto ex art. 416 bis cod. pen. su assunti assiomatici, escludendo il ricorso al metodo mafioso nella commissione dei reati fine e negando valore di esteriorizzazione della capacità intimidatoria del gruppo anche con riguardo a ipotesi di estorsioni consumate con minacce esplicite ovvero violenza fisica. In punto di stretto diritto devesi osservare che la questione circa la necessità e le modalità di esteriorizzazione del metodo mafioso e la rilevanza delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano sono oggetto di ampia riflessione giurisprudenziale con esiti che non confortano la tesi dei giudici d’appello circa l’indispensabilità del radicamento territoriale, soprattutto con riguardo alle ipotesi di delocalizzazione delle mafie storiche ovvero alle c.d. mafie straniere. Questa Corte ha, infatti, precisato che il reato previsto dall’art. 416 bis cod. pen. è integrato anche da organizzazioni le quali, pur senza avere il controllo di tutti coloro che vivono o lavorano in un determinato territorio, hanno la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di persone immigrate o fatte immigrare clandestinamente, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione del vincolo associativo per realizzare la condizione di soggezione e di omertà delle vittime (Sez. 6, n. 35914 del 30/05/2001, Hsiang Khe ed altri, Rv. 221245). Nel solco di una progressiva attenuazione della rilevanza giuridica delle ricadute esterne della metodologia associativa si è ravvisato il vantaggio ingiusto del sodalizio (a prescindere dalla commissione di reati-fine) nell’apparire e nell’affermarsi come gruppo egemone di una comunità etnica di cospicue dimensioni presente in una grande città italiana (Sez. 1, n. 16353 del 01/10/2014, Efoghere e altri, Rv. 263310) mentre nel proc. a carico di Carminati ed altri, c.d. Mafia Capitale, in fase cautelare si è escluso che il riflesso esterno della forza intimidatrice debba tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale (Sez. 6, n. 24535 del 10/04/2015, Mogliani e altri, Rv. 264126) e si è ulteriormente affermato che ai fini della configurabilità del reato non è necessaria “la presenza di un’omertà immanente e permanente, ma è sufficiente che la forza intimidatrice autonoma del sodalizio sia in grado di ingenerare specifiche condizioni di omertà” (Sez. 6 n. 24536 del 2015, Chiaravalle ed altri). Si è, peraltro, osservato che la permeabilità del contesto sociale all’uso strumentale dell’intimidazione mafiosa è una variabile fortemente condizionata dal più o meno spiccato senso civico e dallo sviluppo di un adeguato livello di legalità che portano ad un inevitabile scollamento tra l’obiettiva espressione intimidatoria dell’associazione e l’effettiva penetrazione sociale, sicchè il postulato di una necessaria incisione della realtà in termini macroscopici non appare rispondente ai parametri di concreta offensività della fattispecie (Sez. 2, n. 24851 del 04/04/2017, Garcea e altri, Rv. 270442), e ciò è ancor più vero laddove la carica intimidatrice sia – per scelta criminale – diretta al controllo di realtà economiche ben determinate ovvero di peculiari gruppi etnici, come nella specie. Il reato in questione alla stregua delle coordinate ermeneutiche della giurisprudenza di legittimità è, dunque, configurabile anche con riguardo ad organizzazioni che, pur senza controllare indistintamente quanti vivono o lavorano in un determinato territorio, circoscrivono le proprie illecite attenzioni a danno dei componenti di una specifica collettività, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi giacchè la ragione della peculiare incriminazione è data dal ricorso a siffatta metodologia, reputata in massimo grado lesiva dei beni tutelati, mentre il numero effettivo dei soggetti che risultano coinvolti come vittime non assurge a criterio decisivo ove il fenomeno abbia capacità diffusiva. 13.2 Inoltre, sotto il profilo probatorio, la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente precisato che in tema di associazione per delinquere, anche di stampo mafioso, è consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (Sez. 2, n. 19435 del 31/03/2016, Ficara, Rv. 266670; n. 53000 del 04/10/2016 Basso ed altri Rv. 268540; n. 2740 del 19/12/2012, Pg in proc. Di Sarli, Rv. 254233), sicchè è consentito trarne legittime inferenze in ordine alla natura e alla stabilità del vincolo. Nè può sottacersi che nei delitti associativi il fulcro centrale della prova è costituito,nella prevalenza dei casi, dalla prova logica, desumibile per lo più dall’esame d’insieme di condotte frazionate, ciascuna delle quali non necessariamente dimostrativa dell’apporto fornito alla vita del sodalizio mafioso (Sez. 1, n. 1470 del 11/12/2007, P.G. in proc. Addante e altri, Rv. 238839; Sez. 5, n. 1631 del 11/11/1999, Bonavota ed altri, Rv. 216263). Pertanto, i dati relativi alla partecipazione di determinati soggetti ai reati fine effettivamente realizzati ben possono refluire nel giudizio relativo all’esistenza del vincolo associativo e all’inserimento dei soggetti nell’organizzazione, specie quando ricorrano elementi dimostrativi del tipo di criminalità, della struttura e delle caratteristiche dei singoli reati, nonchè delle modalità della loro esecuzione (Sez. 5, n. 21919 del 04/05/2010, Procopio, Rv. 247435). Alla luce dei richiamati principi risulta giuridicamente non appagante l’assunto della sentenza impugnata (pag. 70/72) secondo cui “il metodo mafioso non può certo evincersi dalla realizzazione dei reati fine della associazione, elemento comune ad ogni tipo di societas sceleris”, negandosi in via aprioristica valenza probatoria agli indizi di ordine logico e fattuale che possono trarsi dalle condotte esecutive del programma criminoso anche in ordine alle peculiari modalità operative del sodalizio. La negazione della prova logica si risolve nella rinunzia a trarre dai fatti, nella loro caratterizzazione esecutiva, che denota modalità collaudate d’azione, e nelle connotazioni dinamiche, che attestano vincoli relazionali improntati a generalizzata sudditanza, le necessitate inferenze indizianti non solo circa l’esistenza del sodalizio quale entità del tutto indipendente dalla concreta esecuzione dei singoli delitti-scopo, ma anche circa la riconducibilità o meno dei suoi modelli operativi ai tratti distintivi dell’associazione mafiosa, esiti da scrutinare secondo gli ordinari parametri probatori. 13.3 Deve ribadirsi che il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova e alla loro concludenza probatoria, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, Clarke, Rv. 203428). Alla stregua dei principi sopra richiamati deve rilevarsi che la Corte territoriale ha abdicato al vaglio degli elementi acquisiti in atti, costituiti principalmente dagli esiti delle intercettazioni telefoniche e dalle denunzie delle pp.oo., limitandosi ad enunciazioni di principio che eludono l’elaborazione critica del compendio probatorio, attestando la motivazione su enunciazioni assertive, come laddove esclude che le minacce esplicite e la violenza fisica caratterizzanti taluni degli episodi a giudizio siano espressione della metodologia mafiosa, sebbene la giurisprudenza riconosca – in relazione alle specifiche caratteristiche del sodalizio – la possibilità anche di minacce c.d. “silenti” (ex multis Sez. 2, n. 20187 del 03/02/2015, Gallo e altro, Rv. 263570), o illogiche, come nella sottolineatura della mancanza di riferimenti al sodalizio d’appartenenza ad opera degli imputati all’atto delle richieste estorsive,evenienza che non costituisce, in realtà, inequivoco indice di assenza di mafiosità, potendo – al contrario – essere letta come precisazione ultronea nei confronti di vittime cui fosse nota l’appartenenza degli agenti al gruppo criminale. La lacunosa trama argomentativa posta a fondamento dell’operata riqualificazione del delitto di cui al capo 105) e dell’esclusione dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 impone, dunque, l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata con la doverosa precisazione che, attesa la natura del vizio rilevato, il giudice di rinvio mantiene integri i propri poteri di accertamento e valutazione del fatto, dovendo procedere ad una completa rivisitazione del materiale probatorio, facendo corretta applicazione dei principi di diritto e delle regole della logica come sopra evidenziati. 14. Quanto ai ricorsi proposti dagli imputati, talune delle doglianze formulate hanno natura comune e risultano fondate su argomentazioni sovrapponibili sicchè ne risulta opportuna la cumulativa trattazione. 14.1 Con riguardo alla partecipazione all’associazione per delinquere come riqualificata hanno formulato doglianze C.S., D.V. e L.I., denunziando che la Corte d’Appello ha omesso di dar conto degli elementi dai quali ha desunto l’internità al gruppo criminoso e di precisare quali sarebbero i contributi materiali forniti alla societas sceleris e quali gli elementi attestanti la coscienza e volontà di far parte della stessa, trascurando, altresì, di rilevare il difetto di prova circa un collegamento tra tutti i membri dell’associazione e senza fissare i confini della partecipazione rispetto al mero concorso di persone nel reato. Le doglianze sono inammissibili per manifesta infondatezza. La Corte territoriale, (la cui valutazione è stata sub 13 oggetto di rilievo negli stretti limiti concernenti il vizio di motivazione sull’esclusione del carattere mafioso del sodalizio e dell’aggravante ex art. 7), ha recepito il percorso giustificativo del Gup con riguardo all’esistenza di una compagine criminale dotata di una stabile struttura operativa, con una ben distinta ripartizione di ruoli, un delimitato ambito di azione e ha correttamente desunto i profili di partecipazione in relazione a ciascun imputato dalla reiterazione delle condotte illecite ascritte e dagli elementi circostanziali emergenti dalle conversazioni telefoniche captate, dagli esiti dei servizi di appostamento della P.g., dalle denunzie delle pp.oo., fonti capaci di dar conto del grado di coinvolgimento nelle attività criminali del gruppo, anche sotto il profilo dell’adesione psicologica al programma delinquenziale. Il primo giudice ha analiticamente scrutinato le posizioni degli odierni ricorrenti, dando singolarmente conto delle risultanze investigative in ordine a ciascuno dei delitti contestati e, in via conclusiva, del profilo partecipativo (per C. e D., pag. 181; L. pag. 194 sent. 1 grado) e la sentenza impugnata ha fatto legittimo richiamo a pag. 75 allo scrutinio delle fonti di prova già effettuato dal Gup, operandone un sostanziale riepilogo nei successivi passaggi, anche al fine di denegare fondamento alla ricorrente obiezione difensiva tendente a ricondurre le condotte al mero concorso di persone nel reato. I giudici di merito hanno, dunque, fatto applicazione dei principi enunciati da questa Corte secondo cui in tema di reato associativo la partecipazione non estemporanea dell’imputato ai reati fine che connotano il programma criminoso dell’associazione costituisce indice sintomatico dell’intraneità dell’agente al sodalizio (Sez. 1, n. 29959 del 05/06/2013, Amaradio e altri, Rv. 256200) e l’appartenenza di un soggetto ad un sodalizio criminale può essere ritenuta anche in base alla partecipazione ad un solo reato fine, qualora il ruolo svolto e le modalità dell’azione siano tali da evidenziare la sussistenza del vincolo (Sez. 5, n. 6446 del 22/12/2014, Boschetti, Rv. 262662; Sez. 1, n. 6308 del 20/01/2010, Ahmed e altri; Rv. 246115; Sez. 3, n. 43822 del 16/10/2008, Romeo e altri, Rv. 241628). Si è, per altro verso, segnalato che a fronte della ripetuta commissione di reati-fine, integrante un quadro connotato da gravità indiziaria in ordine alla partecipazione al reato associativo, l’elisione della stessa è possibile solo con la prova contraria che il contributo fornito non è dovuto ad alcun vincolo preesistente con i correi e fermo restando che detta prova, stante la natura permanente del reato “de quo”, non può consistere nell’allegazione della limitata durata dei rapporti intercorsi (Sez. 2, n. 5424 del 22/01/2010, Syndial e altri, Rv. 246441; Sez. 3, n. 42228 del 03/02/2015, Prota, Rv. 265346). Devesi aggiungere con riguardo alla posizione del ricorrente C. e alla sua pretesa internità ad un diverso gruppo criminale che la sentenza di primo grado (che si integra e salda con quella d’appello in quanto espressiva di concordi valutazioni sul punto) evidenzia alle pag. 165 e seguenti che il ricorrente è membro del gruppo operante in (OMISSIS), capeggiato da Pa.Al. del quale è uomo di fiducia, incaricato della riscossione delle contribuzioni forzose, riportando le emergenze captative che ne sostanziano il ruolo. La palese insussistenza dei vizi denunziati vota, pertanto, le censure proposte all’irricevibilità. 14.1 I ricorrenti Cr., C., Bi., S.L. e Vl. lamentano che la sentenza impugnata, in esito alla riqualificazione del delitto ex art. 416 bis c.p. nella fattispecie associativa semplice, abbia omesso di dar conto in relazione ai molteplici episodi di estorsione a ciascuno addebitati della ricorrenza dei requisiti della violenza o della minaccia finalizzati alla coartazione delle pp.oo., limitandosi al richiamo della motivazione di primo grado che, tuttavia, faceva leva sulla capacità intimidatrice del disconosciuto sodalizio di stampo mafioso. L’esclusione dell’elemento specializzante del metodo mafioso avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale a riesaminare i delitti ex art. 629 cod. pen., verificandone gli elementi costitutivi non più mutuabili dall’illecito associativo. Nell’ambito del vizio di motivazione circa la sussistenza dei reati-fine si colloca anche il primo motivo formulato nell’interesse di M.V. con cui ci si duole che la Corte d’appello abbia confermato le responsabilità dell’imputato per i capi 93 e 41 della rubrica richiamando in toto il percorso argomentativo del giudice di primo grado, senza esaminare il merito delle doglianze formulate dal ricorrente. Analogamente L.I. lamenta che in relazione ai reati fine ascrittigli (capi 37, 95, 103) il giudice d’appello si sia limitato a una mera riproduzione delle argomentazioni già sviluppate dalla sentenza di primo grado senza valutare la ricorrenza degli estremi di un recesso attivo, prospettato in termini del tutto generici nei motivi d’appello (cfr pag 12, 13). 14.2 Le doglianze sono infondate e non meritano, pertanto, accoglimento. E’ d’uopo ribadire la legittimità della sentenza di secondo grado che, disattendendo le censure dell’appellante, si uniformi, sia per la “ratio decidendi”, sia per gli elementi di prova, ai medesimi argomenti valorizzati dal primo giudice, soprattutto se la consistenza probatoria degli stessi è così prevalente e assorbente da rendere superflua ogni ulteriore considerazione. Pertanto, nell’ipotesi in cui siano dedotte questioni già esaminate e risolte, oppure questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione può motivare “per relationem” e trascurare di esaminare argomenti non pertinenti, generici o manifestamente infondati (Sez. 5, n. 3751 del 15/02/2000, Re Carlo, Rv. 215722; n. 7572 del 22/04/1999, Maffeis D, Rv. 213643). Orbene, la sentenza impugnata non può essere certo tacciata di acritico recepimento delle valutazioni del primo giudice, avendo – al contrario – operato un apprezzamento ampiamente difforme dal Gup non solo sulla qualificazione del reato associativo ma anche in ordine alla sussistenza di molti reati fine. Il richiamo alle emergenze probatorie esposte dal primo giudice in relazione ai singoli imputati risponde a comprensibili esigenze di sintesi ma non implica in via generale l’inosservanza dell’onere motivazionale in ordine alle specifiche questioni devolute in sede di gravame e ampiamente esposte da pag 32 a pag 62 del provvedimento impugnato. Nella specie, attesa la generica devoluzione effettuata in appello della questione, l’onere motivazionale scaturirebbe dall’esclusione del metodo mafioso quale elemento caratterizzante della fattispecie ex art. 416 bis cod. pen., originariamente contestata e ritenuta, e dalla supposta sopravvenuta necessità di rivalutare il compendio probatorio alla luce delle concrete modalità delle azioni delittuose, prive nella gran parte di una connotazione violenta. Tale doglianza è assorbita dal disposto annullamento in ordine alla qualificazione del delitto associativo ed è, comunque, priva di pregio. La giurisprudenza di legittimità con orientamento costante e consolidato riconosce che la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l’elemento strutturale del reato vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa e le particolari condizioni soggettive della vittima (Sez. 2, n. 2702 del 18/11/2015, Nuti, Rv. 265821; n. 11922 del 12/12/2012, Lavitola, Rv. 254797; Sez. 5, n. 41507 del 22/09/2009, Basile e altri, Rv. 245431; Sez. 2, n. 26819 del 10/04/2008, Dell’Utri e altro, Rv. 240950; n. 37526 del 16/06/2004, Giorgetti e altro, Rv. 229727). La minaccia, dunque, può essere implicita, indiretta, larvata purchè, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, la parte offesa sia venuta a trovarsi nella condizione di subire la volontà del soggetto attivo per evitare, in caso di mancata adesione, il paventato verificarsi di un più grave pregiudizio (Sez. 1, n. 4142 del 13/02/1995, Mingacci, Rv. 200794). Le condotte ascritte ai ricorrenti hanno carattere seriale e consistono nella reiterata e insistita richiesta di versamento periodico di una somma di danaro al gruppo di connazionali che “gestisce” le aree di sosta rivolta ai proprietari e/o conducenti dei pulmini provenienti dalla (OMISSIS), con espressa rappresentazione -emergente dal chiaro tenore delle molteplici intercettazioni riportate nella sentenza di primo grado – delle conseguenze negative in caso di inottemperanza. Le circostanze di fatto richiamate dai giudici di merito sono ampiamente rappresentative del lucroso monopolio instaurato dagli imputati sui movimenti di merci e persone da e per la (OMISSIS), della persistenza nel tempo delle condotte e della loro diffusività territoriale, della notorietà del regime di controllo imposto dagli appartenenti al gruppo criminale che non ricusano il ricorso alla violenza fisica allorchè taluno cerchi di sottrarvisi sicchè le doglianze articolate in punto di sussistenza dei reati-fine risultano destituite di giuridico fondamento a fronte di un percorso argomentativo che ha apprezzato in termini adeguati e coerenti con le emergenze processuali l’avvenuta coazione della libera determinazione delle pp.oo. con modalità strumentali illecite. 15. Nell’interesse degli imputati Bu., B., D., S.L. e Vl. e Sc. si deduce che l’impugnata sentenza sia incorsa in violazione del divieto di reformatio in pejus in quanto, in sede di rideterminazione della pena, ha irrogato per gli stessi reati a titolo di continuazione aumenti superiori a quelli operati dal primo giudice. La tesi non merita accoglimento in quanto manifestamente infondata. La Corte d’Appello, a seguito della riqualificazione della condotta associativa, ha nuovamente individuato la pena base in relazione a ciascuna posizione e autonomamente rideterminato il trattamento sanzionatorio anche per quel che concerne la disciplina della continuazione. Ritiene il Collegio debba darsi continuità alla giurisprudenza di legittimità secondo cui non viola il divieto di “reformatio in peius” previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest’ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C, Rv. 258653; Sez. 3, n. 38053 del 03/07/2013, C, Rv. 256933; Sez. 6, n. 49820 del 05/12/2013, Billizzi e altri, Rv. 258139; Sez. 5, n. 12136 del 02/12/2011, Mannavola, Rv. 252699). Infatti, si è condivisibilmente ritenuto che in ipotesi di mutamento della fattispecie più grave venga meno la stessa “unità ontologica della ritenuta continuazione, nella sua struttura costituita dal reato già individuato più grave e dai reati-satellite” (Sez. 6, n. 31266 del 16/06/2009, Buscemi, Rv. 244793) in quanto lo “scioglimento della continuazione o del concorso formale, qualora determini la elisione della pena già fissata per il reato base, fa… riacquistare ai reati-satellite la loro autonomia, il che comporta che le pene devono essere nuovamente fissate per i singoli reati secondo la loro astratta previsione” (Sez. 1, n. 46533 del 11/10/2005, Pesce, Rv. 232980). Da ciò discende che in siffatta evenienza il giudice è chiamato ad esercitare ex novo il potere discrezionale di determinazione della pena-base per un reato diverso da quello ritenuto nella sentenza appellata con piena libertà valutativa e con il solo limite del complessivo trattamento praticato in primo grado. In presenza di una novazione strutturale del reato continuato appare, dunque, improprio il richiamo al divieto ex art. 597 c.p.p., comma 3 in considerazione della disomogeneità dei termini del cumulo giuridico a confronto. 15.1 Il ricorrente Bu.Mi. denunzia, altresì, sotto il profilo della violazione di legge il mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i fatti ascrittigli nel presente procedimento e quelli giudicati con sentenza irrevocabile del Gip del Tribunale di Verona n. 736/2010, trattandosi di fatti commessi in danno di tale Ba.Si., ovvero la stessa p.o. di cui ai capi 4 e 14. La questione è stata specificamente devoluta in appello (pag. 39) sebbene la Corte (pag. 87), pur ritenendo assorbito nel reato sub 4 quello di cui al capo 14, abbia omesso ogni motivazione sul punto. La censura è, dunque, fondata e merita accoglimento, ravvisandosi il vizio di mancanza di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione alla doglianza devoluta dal ricorrente e rimasta inevasa. Infatti, qualora il giudice di appello abbia omesso di provvedere sulla richiesta di applicazione della continuazione, formulata con specifico motivo di impugnazione, sussiste l’interesse dell’imputato al ricorso per cassazione per la mancata pronuncia sul punto, non potendo il giudice di appello esimersi da tale compito, riservandone la soluzione al giudice dell’esecuzione (Sez. 5, n. 3867 del 07/10/2014, Varrica, Rv. 262679; Sez. 6, n. 26539 del 09/06/2015, Ciancio, Rv. 263917; n. 38648 del 30/09/2010, Cosentino ed altri, Rv. 248582). 16. I ricorrenti L., M. e S.L. e Vl. censurano sotto il profilo della violazione di legge e dell’omessa motivazione la denegata concessione delle circostanze attenuanti generiche e il L. e il D. anche dell’attenuante ex art. 62 c.p., n. 4. Le doglianze che attengono la reiezione della richiesta di riconoscimento delle attenuanti ex art. 62 bis cod. pen. sono inammissibili per genericità prima ancora che manifestamente infondate. La Corte territoriale con motivazione cumulativa ha ritenuto di dover negare il beneficio in ragione del grado di coinvolgimento nei fatti e della loro gravità a fronte di alligazioni difensive indeterminate, generalmente evocative del comportamento processuale dei prevenuti e della loro incensuratezza (ove sussistente). Rileva il Collegio che, alla stregua della consolidata giurisprudenza di legittimità, la “ratio” della disposizione non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva, essendo, invece, sufficiente l’indicazione degli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti (Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899). La meritevolezza dell’adeguamento sanzionatorio che l’istituto è destinato a realizzare non può, infatti, mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice che ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo l’insussistenza. Al contrario, è la meritevolezza che necessita, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificarla mentre l’esclusione risulta, invece, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto della richiesta, senza che ciò comporti – tuttavia – la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la stessa si fonda (Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381). 16.1 Quanto all’attenuante ex art. 62 c.p., n. 4 deve rilevarsi che, pur a fronte di specifica devoluzione, la Corte non ha fornito giustificazione della reiezione della richiesta difensiva. Deve, nondimeno, richiamarsi in proposito il principio reiteratamente affermato dalla Corte di Legittimità secondo cui non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che risulti manifestamente infondato (Sez. 5, n. 27202 del 11/12/2012, Tannoia e altro, Rv. 256314; Sez. 6, n. 47983 del 27/11/2012, D’Alessandro, Rv. 254280; Sez. 4, n. 24973 del 17/04/2009, Ignone e altri, Rv. 244227). Pacificamente, ai fini della configurabilità dell’attenuante del danno di speciale tenuità in riferimento al delitto di estorsione, che ha natura di reato plurioffensivo in quanto lede non solo il patrimonio ma anche la libertà e l’integrità fisica e morale della vittima, è necessaria una valutazione globale del pregiudizio subito dalla parte lesa (Sez. 2, n. 45985 del 23/10/2013, Donati, Rv. 257755; n. 12456 del 04/03/2008, Umina e altri, Rv. 239749) e, con precipuo riguardo all’aspetto economico, la particolare tenuità va individuata in un pregiudizio di rilevanza minima, non essendo sufficiente che esso sia lieve (Sez. 2, n. 7603 del 27/02/1990, Leone, Rv. 184484; Sez. 6, n. 1857 del 12/10/1989, Cancellieri, Rv. 183285). Inoltre, in caso di unificazione con il vincolo della continuazione di vari reati, per applicare una circostanza attenuante non è necessario che questa sia presente in ciascuno dei delitti facenti parte della fattispecie complessa, essendo sufficiente ch’essa ricorra in ordine al reato più grave (Sez. 2, n. 7302 del 23/01/2001, Persichetti P, Rv. 218165). Orbene, con riguardo alle posizioni dei ricorrenti e tenuto conto del solo profilo patrimoniale della circostanza dagli stessi valorizzato, deve rilevarsi quanto al L. che il capo 37, in relazione al quale il giudice d’appello ha determinato la pena base, è inerente a fattispecie di estorsione consumata in danno di P.P. in assenza di precisa individuazione della somma pretesa per il posteggio nella città (OMISSIS), pur dandosi conto nella contestazione che la p.o. versava continuativamente danaro a tale titolo al V. e all’imputato. Trattasi, quindi, di condotta reiterativa, protratta nel tempo, valutata dalla Corte territoriale in termini unitari, come evidenziato a pag. 76: “per la accertata serialità quindi, può parlarsi di un’unica continua determinazione che non registra sul piano della volontà interruzioni o desistenze, in tal caso si ha un unico episodio di estorsione pur in presenza di plurimi episodi di minaccia”. In detta prospettiva di assoluto favore per l’imputato in cui la pluralità di dazioni illecite sono state oggetto di reductio ad unitatem in forza della unicità della deliberazione criminosa, alla stregua di un delitto a condotta frazionata, pare evidente (a prescindere dalla non contestata esattezza di siffatta qualificazione) che anche il danno debba essere valutato come unitario, e, quindi, corrispondente alla sommatoria delle singole dazioni che, per quanto modeste, appaiono comunque insuscettibili di essere valutate come economicamente irrilevanti. Con riguardo al D., la pena base è stata determinata in relazione al capo 31 della rubrica che attiene un’ipotesi di estorsione tentata (Sez. U, n. 28243 del 28/03/2013, Zonni Sanfilippo, Rv. 255528) finalizzata all’acquisizione di un illecito profitto di Euro mille, somma di per sè ostativa al riconoscimento dell’attenuante invocata, anche a voler pretermettere il danno cagionato alla p.o. Cr.Vi. in conseguenza delle percosse inflittegli. In conclusione, deve ribadirsi il principio per cui il mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo di appello non comporta l’annullamento della sentenza quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento, in quanto l’omessa motivazione sul punto non arreca alcun pregiudizio alla parte (Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Dell’Utri, Rv. 263980), risultando in concreto inidonea ad incidere sugli esiti decisori. 17. Con riguardo all’apparato circostanziale deve darsi ulteriormente conto che le difese di C.S. e di S.L. e S.V. censurano sotto il profilo dell’assoluto difetto di motivazione la ritenuta sussistenza dell’aggravante delle più persone riunite, evidenziando come per gli episodi rispettivamente contestati sub 1, 12, 99 al primo, sub 2 al secondo e sub 5 al terzo non ricorra la simultanea presenza di almeno due persone nel luogo e al momento della realizzazione degli illeciti. A pag. 74 la sentenza impugnata afferma l’esistenza dell’aggravante pur non fornendone giustificazione. Tuttavia, la devoluzione in appello della questione risulta del tutto generica, come emerge a pag. 32 del cumulativo atto di gravame a firma degli Avv.ti Leva Massimo e Celani Michela laddove – richiamata la pronunzia in materia delle Sez. U. n. 21837 del 29/03/2012 – gli appellanti assumono che la postulata simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e al momento del fatto è “circostanza che non ricorre per larga parte delle ipotesi in contestazione”: siffatta prospettazione s’appalesa del tutto inidonea a radicare un obbligo motivazionale in capo alla Corte territoriale e ne preclude la reiterazione in questa sede, in termini del tutto analoghi. 18. Con riguardo alle doglianze aventi rilevanza esclusivamente personale, osserva la Corte che appare insussistente il vizio motivazionale denunziato con il secondo motivo dalla difesa del ricorrente Bi.Pa. giacchè la lettura coordinata delle sentenze di merito esclude qualsivoglia errore nell’identificazione delle fonti di prova a carico dell’imputato. Il capo 19 risulta contestato in concorso con C.S. e Cr.Se. e al Bi. è ascritto il ruolo di collettore delle somme estorte sulla scorta degli esiti delle intercettazioni telefoniche, in particolare quella del 19/11/2009 tra Cr.Ve., Bi. e tale O., autista dei Bo.. La sentenza di primo grado, richiamata sul punto da quella impugnata, a pag. 9 evidenzia come le pp.oo. Bo. identificarono fotograficamente C., A.I., Ba.Ve., Cr.Se., Ba. e Bu., dando conto che il coinvolgimento del ricorrente nell’illecito trova, invece, fondamento nelle risultanze captative. 19. Il ricorrente B.V. con il secondo motivo lamenta la violazione di legge e il vizio della motivazione con riguardo al giudizio d’attendibilità delle dichiarazioni etero accusatorie di J.F.. La Corte territoriale ha evaso la doglianza difensiva sul punto (pagg. 82 e segg.) con un percorso argomentativo giuridicamente corretto e privo di criticità logiche, richiamando in termini adesivi le osservazioni del primo giudice sulla genesi della collaborazione, escludendo ragioni di animosità nei confronti del prevenuto e negando l’incidenza sul giudizio di attendibilità dei motivi a fondamento della scelta di collaborare quando, come nella specie, le propalazioni denotino i caratteri della precisione, coerenza intrinseca, costanza e spontaneità. Ha, inoltre, puntualmente evidenziato i riscontri acquisiti in ordine alle singole fattispecie, costituiti per il capo 71 dalle dichiarazioni dei testi escussi O., Az. e H. mentre il riscontro finale e la chiave di lettura di tutto il materiale acquisito viene individuato nelle dichiarazioni del coimputato Ma.Pe.. La trama giustificativa della sentenza impugnata risulta, pertanto, resistente alle obiezioni difensive in considerazione della esaustività e della tenuta logica delle argomentazioni spese a confutazione delle doglianze. 20. Con riguardo alla posizione del ricorrente D. deve ulteriormente rilevarsi l’inammissibilità delle censure concernenti l’addebito di condotte apparentemente consumate in epoca successiva alla contestata operatività del sodalizio, trattandosi di rilievi già sottoposti al vaglio del primo giudice (pag. 253) e disattesi con motivazione rispetto alla quale viene eluso il puntuale confronto critico, con conseguente aspecificità del motivo, mentre per quel che concerne il delitto di estorsione in danno di Cr.Vi. (capo 31) la sentenza di primo grado, alle pagg. 181-182, ha dato conto che l’illecito era riconducibile all’associazione in quanto i fratelli D. avevano investito della controversia il Bu. nella sua veste di (OMISSIS), richiamando all’uopo la conversazione telefonica tra il Cr. e Ma.Pe., detto (OMISSIS), del 18/4/2011. Priva del requisito della decisività rispetto agli esiti decisori è, infine, la censura circa la contraddittorietà della motivazione in relazione alla partecipazione del ricorrente al sodalizio criminale per effetto delle considerazioni svolte a pag. 91 della sentenza impugnata, trattandosi di affermazioni di carattere ipotetico, intese ad evidenziare la carenza d’interesse alla deduzione piuttosto che a revocare in dubbio il portato delle emergenze processuali poste alla base del giudizio di responsabilità per l’addebito associativo. 21. In relazione al secondo motivo formulato dal ricorrente L.I. nella parte in cui denunzia il vizio di motivazione in ordine alla prospettata ricorrenza dell’ipotesi di desistenza volontaria in relazione ai delitti sub 37, 95 e 103, deve rilevarsi che la doglianza era formulata in termini del tutto generici nell’atto di appello (pag. 13) e, quindi, inidonea a radicare l’obbligo giustificativo da parte del giudice del gravame mentre nella sentenza di primo grado si rinviene esaustiva spiegazione dei fatti alla base del giudizio di penale responsabilità, con indicazione delle relative fonti prova. 22. All’esito della rassegna che precede, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia limitatamente all’operata riqualificazione dell’associazione di cui al capo 105 e all’esclusione dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per effetto del rilevato vizio motivazionale; analogamente deve disporsi con riguardo all’omessa valutazione della richiesta d’applicazione della continuazione avanzata dal ricorrente Bu.Mi.. Le restanti censure articolate nei ricorsi degli imputati risultano inammissibili perchè manifestamente infondate ovvero sprovviste dei requisiti di specificità indispensabili all’utile instaurazione del giudizio di legittimità, con conseguente condanna alle spese e alla sanzione pecuniaria precisata in dispositivo. P.Q.M.In accoglimento del ricorso del P.G. presso la Corte di Appello di Venezia annulla la sentenza impugnata nei confronti di Bu.Mi., Bi.Pa., B.V., C.S., Cr.Se., D.V., L.I., M.V., S.L., S.V., V.M. e Sc.Ni. relativamente alla qualificazione giuridica del fatto contestato al capo 105 e alla valutazione dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Bu.Mi. limitatamente alla omessa motivazione sulla richiesta di riconoscimento del vincolo della continuazione tra i fatti oggetto del presente procedimento e quelli di cui alla sentenza del GIP del Tribunale di Verona n. 736/2010, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Venezia. Dichiara nel resto inammissibile il ricorso del predetto Bu.. Dichiara inammissibili i ricorsi di Bi.Pa., B.V., C.S., Cr.Se., D.V., L.I., M.V., S.L., S.V. e Sc.Ni. e condanna gli stessi ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro millecinquecento ciascuno a favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2017. Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2017 Organizzazioni mafiose straniere attive in Italia, tra delocalizzazione e novità: risvolti in tema di prova Cass. Sez. 2, n. 50949 del 10/10/2017
Nondimeno, alla stregua di Sez. 2, n. 50949 del 10/10/2017, Bivol, chiamata a decidere del carattere mafioso o meno di un’associazione in tesi d’accusa collegata alla mafia moldava denominata Vor v’zacone, «il notorio, come fatto attraverso cui si perviene alla certezza giuridica, per essere utilizzabile nel processo penale, deve costituire una conoscenza condivisa dalla generalità dei cittadini o, comunque, dai soggetti qualificati appartenenti ad un determinato ambiente»; premesso ciò, quel che qui preme di sottolineare è che la Corte – escluso che le emergenze relative all’esistenza del sodalizio Vor v’zacone in Moldavia e in altri Paesi consentissero «di configurare l’associazione nazionale come un gruppo delocalizzato, emanazione dell’organizzazione estera e alla stessa organicamente riferibile» – ne trae «la conseguenza che [detta associazione nazionale] deve essere apprezzata come autonoma consorteria criminale» (par. 13, pp. 12 e 13), di modo da esigere la dimostrazione, incombente sull’accusa, di una sua mafiosità in concreto.
Emerge pertanto che il tema delle nuove ed autonome organizzazioni mafiose, di cui è discorso in precedenza (par. 5), può venire in linea di conto anche in rapporto alle mafie straniere presenti sul territorio nazionale, con una connotazione tuttavia prettamente procedimentale, in quanto fondata, più che sull’imprescindibilità di un’analisi relativa alla loro derivazione da realtà radicate nei Paesi di origine, su valutazioni riservate all’estensione dell’onere della prova in capo all’accusa: infatti, ove questa non abbia fornito la prova della delocalizzazione dell’associazione estera in Italia, deve verificarsi se abbia almeno dimostrato una mafiosità “in atto” della cellula italiana. A questo proposito, nondimeno, osserva Sez. 2, n. 50949 del 2017, cit., che l’«indispensabilità del radicamento territoriale» (par. 13.1, p. 13) è requisito recessivo in giurisprudenza, attesa la ritenuta possibilità di riferire la carica intimidatoria del sodalizio, più che (soltanto) ad un territorio, ad un gruppo etnico radicato su detto territorio.
PQM