Il cognome del figlio naturale riconosciuto in epoca successiva dal padre.
–Cassazione civile sez. I 18 giugno 2015 n. 12640 –
La I Sez. della Corte di Cassazione si sofferma sul delicato tema dell’attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto dal padre non contestualmente alla nascita, affermando che, in ogni caso, il prioritario criterio di valutazione deve essere quello dell’interesse del minore <<ad evitare un danno alla propria identità personale, intesa come proiezione della sua identità personale, avente copertura costituzionale assoluta>>.
Se da un lato, la scelta del giudice sarà ampiamente discrezionale, sottolinea la Corte, questo ultimo dovrà avere riguardo al modo più conveniente di inquadrare l’interesse del minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del suo successivo riconoscimento da parte del padre naturale. La valutazione, dunque, non dovrà essere condizionata dal favor per il patronimico né dall’esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole dettate dall’art. 262 c.c che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo.
La Corte conclude ritenendo corretta – e dunque incensurabile in Cassazione ove adeguatamente motivata – la decisione di di attribuire il solo cognome del padre ad una minore di età inferiore ai cinque anni, non avendo ancora la stessa acquisito, con matronimico una definitiva e formata identità, nella trama dei suoi rapporti personali e sociali.
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Le Massime
– Cassazione civile sez. I 18 giugno 2015 n. 12640 –
FILIAZIONE – Filiazione naturale – Cognome
In tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, avente copertura costituzionale assoluta, la scelta (anche officiosa) del giudice è ampiamente discrezionale e deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del successivo riconoscimento, non potendo essere condizionata né dal “favor” per il patronimico, né dall’esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dall’art. 262 cod. civ., che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo. Pertanto, deve ritenersi corretta e incensurabile in cassazione, ove adeguatamente motivata, la scelta di attribuire ad una minore inferiore di cinque anni il solo cognome del padre, benché quest’ultimo l’abbia riconosciuto in epoca successiva alla madre, non avendo ancora la minore acquisito, con il matronimico, nella trama dei suoi rapporti personali e sociali, una definitiva e formata identità.
I criteri di individuazione del cognome del minore seguono l’esclusivo interesse del medesimo di evitare un danno alla sua personalità sociale e di veder conservato il cognome originario, se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale.
La questione dell’attribuzione del cognome nell’ipotesi del secondo riconoscimento ad opera del padre non ha subito, nell’evoluzione del quadro normativo, una sostanziale modifica, in quanto con il d.lg. 28 dicembre 2013 n. 154 è stato previsto che il figlio “può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”.
FILIAZIONE – Filiazione naturale – Alimenti
L’obbligazione di mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, essendo collegata allo status genitoriale, sorge con la nascita per il solo fatto di averli generati e persiste fino al momento del conseguimento della loro indipendenza economica, con la conseguenza che nell’ipotesi in cui, al momento della nascita, il figlio sia stato riconosciuto da uno solo dei genitori, il quale abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento anche per la parte dell’altro genitore, egli ha diritto di regresso nei confronti dell’altro per la corrispondente quota, sulla base delle regole dettate dagli articoli 148 e 261 del codice civile.
La vicenda processuale
– Cassazione civile sez. I 18 giugno 2015 n. 12640 –
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Ancona ha rigettato l’appello proposto da N.L. nei confronti di V.L. avverso la sentenza depositata in data 19 aprile 2013, con la quale il Tribunale di Macerata autorizzava il V. – stante il dissenso al riguardo manifestato dalla predetta, madre di N.A., la quale per prima lo aveva effettuato – a procedere al riconoscimento di detta minore, disponendo che la stessa assumesse il solo cognome paterno.
Per quanto in questa sede maggiormente rileva, la Corte territoriale ha osservato che la scelta del Tribunale, contestata dalla madre, di attribuire alla predetta minore il solo cognome paterno non risultava condizionata dal “favor” per il patronimico, essendo stata adottata nell’interesse della minore stessa, con riferimento all’insussistente attitudine identificatrice del cognome materno, tenuto anche conto dell’ancora tenera età della bambina, nonchè della “implausibilità sociale del doppio cognome”, a fronte della “maggiore plausibilità del solo patronimico”.
E’ stata altresì confermata la statuizione relativa al rigetto della domanda della madre di rimborso – pro quota – della spese sostenute per il mantenimento della minore. In proposito si è rilevato che il V. aveva stipulato una polizza assicurativa, versando mensilmente la somma di Euro 200,00, con indicazione della minore come beneficiarla, aggiungendosi che la N. non aveva provveduto a indicare l’ammontare di tali esborsi, nè aveva richiesto che la liquidazione fosse effettuata in via equitativa.
La motivazione in diritto della sentenza
– Cassazione civile sez. I 18 giugno 2015 n. 12640 –
Con il primo motivo, denunciandosi violazione dell’art. 262 cod. civ. in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, si sostiene, da un lato, che la scelta del solo patronimico sarebbe avvenuta in via ufficiosa, avendo il V. richiesto che al cognome materno venisse aggiunto il proprio, e, dall’altro, che l’imposizione del cognome paterno, oltre a collidere con il valore costituzionale dell’eguaglianza fra uomo e donna, integrerebbe una disparità di trattamento, come di recente affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
La censura è per certi versi inammissibile, per altri infondata.
La prospettazione principale, attiene, e invero, alla natura officiosa della scelta operata dal giudice del merito, in sè considerata, vale a dire senza alcuna adeguata critica circa la corrispondenza o meno della scelta stessa all’interesse della minore.
Questa Corte, invero, ha affermato che poichè i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione esclusiva del suo interesse, che è essenzialmente quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e poichè l’art. 262 cod. civ. disciplina autonomamente e compiutamente la materia, la scelta del giudice non può essere condizionata nè dal “favor” per il patronimico, nè dall’esigenza di equiparare almeno tendenzialmente il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dal citato articolo, che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo o legittimato (del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 33), delle quali, peraltro, sono stati già evidenziati profili di non aderenza al dettato costituzionale ed alle norme sovranazionali (cfr.Corte Cost. 2006 n. 61; Cass., ord., 2008 23934).
Tanto premesso, deve rilevarsi che la questione dell’attribuzione del cognome nell’ipotesi del secondo riconoscimento ad opera del padre non ha subito, nell’evoluzione del quadro normativo, pure invocata dai ricorrenti, una sostanziale modifica, in quanto con il D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 è stato previsto, in conformità a una linea interpretativa già proposta in relazione alla precedente formulazione della norma, che il figlio “può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”.
In linea generale, la tendenziale abolizione del solo patronimico, da sostituirsi, secondo proposte che trovano riferimento in vari ordinamenti e che – de iure condendo – stanno affermandosi anche nel nostro, si colloca in un ambito culturale e giuridico del tutto differente dal denunciato “favor” per il solo patronimico, che costituisce il dato fondante, ma non pertinente nella specie, delle doglianze della ricorrente. Ed invero, premesso che la pur invocata pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in data 7 gennaio 2014 non attiene alla fattispecie in esame, la questione, nei termini astratti proposti nel ricorso, può trovare adeguata risposta nella giurisprudenza di questa Corte, laddove si è affermato che il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali della persona, avente copertura costituzionale assoluta, quale strumento identificativo di ogni individuo. E’ stato poi precisato che la ratio della norma non va individuata nell’esigenza di rendere la posizione del figlio nato fuori del matrimonio quanto più simile possibile a quella del figlio di coppia coniugata, ma in quella di garantire l’interesse del figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità.
L’organo giurisdizionale deve pertanto aver riguardo al modo più conveniente di individuare l’interesse del minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto sino al momento del riconoscimento da parte del padre, ed è chiamato ad emettere, prescindendo da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome dell’uno o dell’altro genitore (nonchè, contrariamente a quanto sostenuto del ricorso, dalle richieste delle parti), un provvedimento contrassegnato da ampio margine di discrezionalità e frutto di libero e prudente apprezzamento, nell’ambito del quale assume rilievo centrale non tanto l’interesse dei genitori, quanto quello del minore ad essere identificato nel contesto delle relazioni sociali in cui si trova inserito.
Ne consegue che, oltre che nei casi in cui ne possa derivare un diretto pregiudizio al minore in ragione della cattiva reputazione del padre, l’assunzione del patronimico con esclusione del cognome materno non può essere disposta quando l’esclusione di detto cognome, ormai naturalmente associato al minore nel contesto sociale in cui egli si trova a vivere, si risolva in una ingiusta privazione di un elemento distintivo della sua personalità (Cass., 1 agosto 2007, n. 16989; Cass., 26 maggio 2006, n. 12641).
Deve pertanto considerarsi che, non versando ancora nella fase adolescenziale o preadolescenziale, la minore, nata il 30 novembre 2010, non abbia ancora acquisito con il matronimico, nella trama dei suoi rapporti personali e sociali, una definitiva e formata identità, in ipotesi suscettibile di sconsigliare la scelta o l’aggiunta del patronimico (Cass., 5 febbraio 2008, n. 2751).
Chiarito che, in linea di principio, la statuizione impugnata non si colloca su un versante difforme dagli orientamenti di questa Corte (v. anche Cass., 3 febbraio 2011, n. 2644), deve ribadirsi, per altro verso, che l’ampia discrezionalità attribuita, nei termini sopra indicati, al giudice del merito, comporta che tale decisione – da maturare nell’esclusivo interesse del minore, tenendo conto della natura inviolabile del diritto al cognome, tutelato ai sensi dell’art. 2 Cost. – è incensurabile in cassazione, se adeguatamente motivata (Cass., 17 luglio 2007, n. 15953). Sotto tale profilo deve rilevarsi che non risulta denunciato alcun vizio motivazionale, per altro – avuto riguardo alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile “ratione temporis” – virtualmente soggetto alle limitazioni introdotte dalla nuova disciplina.
Con il secondo mezzo si deduce violazione degli artt. 147, 148 e 316-bis cod. civ.: la Corte di appello, anche attraverso l’inconferente rilievo attribuito a una polizza assicurativa stipulata dal padre, avrebbe escluso il diritto della madre al rimborso delle spese sostenute anteriormente al periodo di vigenza del contributo stabilito in sede giudiziale, avrebbe erroneamente sostenuto la necessità di una prova rigorosa circa la loro entità, in una materia in cui il ricorso al criterio equitativo è generalmente riconosciuto.
La censura è fondata.
Infatti l’obbligazione di mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, essendo collegata allo status genitoriale, sorge con la nascita per il solo fatto di averli generati e persiste fino al momento del conseguimento della loro indipendenza economica, con la conseguenza che nell’ipotesi in cui, al momento della nascita, il figlio sia stato riconosciuto da uno solo dei genitori, il quale abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento anche per la parte dell’altro genitore, egli ha diritto di regresso nei confronti dell’altro per la corrispondente quota, sulla base delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c., (v. oggi l’art. 316 bis c.c., introdotto dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) da interpretarsi alla luce del regime delle obbligazioni solidali stabilito nell’art. 1299 c.c. (v. Cass. n. 22506/2010, n. 5652/2012).
Questa corte ha anche precisato che il rimborso delle spese spettanti al genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorchè trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, essendo diretto ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, per gli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole; il giudice di merito può utilizzare il criterio equitativo per determinare le somme dovute a titolo di rimborso poichè è principio generale (desumibile da varie norme, quali ad esempio l’art. 379 c.c., comma 2, artt. 2054 e 2047 c.c.) che l’equità costituisca criterio di valutazione del pregiudizio non solo in ipotesi di responsabilità extracontrattuale ma anche con riguardo ad indennizzi o indennità previste in genere dalla legge (v. Cass., 1 ottobre 1999, n. 10861; Cass., 17 giugno 2004, n. 11351;Cass., 19 febbraio 2010, n. 3991; Cass., 22 luglio 2014, n. 16657).
Pertanto, la corte del merito, a prescindere dall’incongruo riferimento a una polizza assicurativa stipulata dal V., illegittimamente ha escluso il ricorso al criterio equitativo per determinare l’importo, non altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare, dovuto a titolo di rimborso in favore della N., la quale ha provveduto al mantenimento della figlia fin dalla nascita.
L’impugnata decisione deve essere – in parte qua – cassata, con rinvio alla Corte di appello di Ancona che, in diversa composizione, applicherà i principi testè richiamati, provvedendo, altresì, al regolamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.