Il godimento della cosa comune Cass. Sez. 6-2, n. 15705/2017

L’art. 1139 c.c. rende applicabili, in materia condominiale, le disposizioni dedicate alla comunione ordinaria e, in specie, l’art. 1102 (per cui ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne parimenti uso, secondo il loro diritto, non essendogli tuttavia consentito estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri comunisti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso).
Chiarito in via preliminare da Sez. 2, n. 08507/2017, Abete, che il principio di cui all’art 1102 c.c. sull’uso della cosa comune consentito al partecipante non è applicabile ai rapporti tra proprietà  individuali (e loro accessori) e beni condominiali finitimi, essendo questi disciplinati dalle norme attinenti alle distanze legali ed alle servitù prediali, ossia da quelle che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite e che non contraddicono alla particolare normativa della comunione, osserva la successiva Sez. 6-2, n. 15705/2017, Scarpa, Rv. 644624-01, che l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la normale ed originaria destinazione (per il cui mutamento è necessaria l’unanimità dei consensi dei partecipanti) e di impedire agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto: sicché configura un abuso la condotta del condomino consistente nella stabile e pressoché integrale occupazione di un “volume tecnico” dell’edificio condominiale (nellaspecie, il locale originariamente destinato ad accogliere la caldaia centralizzata), mediante il collocamento in esso di attrezzature e impianti fissi, funzionale al miglior godimento della sua proprietà individuale.

L’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la normale ed originaria destinazione (per il cui mutamento è necessaria l’unanimità dei consensi dei partecipanti) e di impedire agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto, configurando, pertanto, un abuso la condotta del condomino consistente nella stabile e pressoché integrale occupazione di un “volume tecnico” dell’edificio condominiale (nella specie, il locale originariamente destinato ad accogliere la caldaia centralizzata), mediante il collocamento in esso di attrezzature e impianti fissi, funzionale al miglior godimento della sua proprietà individuale.

 

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Z.T. e C.M. hanno proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi (violazione dell’art. 1102 c.c., e violazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2) avverso la sentenza della Corte d’Appello di Trieste n. 112/2015 del 20 febbraio 2015.

Rimangono intimati, senza svolgere attività difensiva, Co.Gi., Co.Pa. e la Linea Odontoiatrica s.r.l..

La sentenza impugnata ha rigettato l’appello di Z.T. e C.M. avverso la sentenza n. 89/2011 del Tribunale di Udine, sezione distaccata di Palmanova, che aveva respinto la domanda formulata dai medesimi Z.T. e C.M. volta a rimuovere gli oggetti e/o le attrezzature di proprietà della Linea Odontoiatrica s.r.l., o di Co.Gi. e Co.Pa., i quali avevano occupato un locale di proprietà condominiale identificato come sub f. (OMISSIS) map. (OMISSIS) sub. (OMISSIS), della complessiva superficie di mq. 9,09, con condanna anche al risarcimento dei danni.

A fronte del rigetto della domanda statuito dal Tribunale, che aveva argomentato che il locale di cui trattasi è di dimensioni molto contenute e che gli attori non avessero dedotto quale interesse essi si proponessero di realizzare e quale pregiudizio avessero perciò subito, gli appellanti Z.T. e C.M. avevano posto in rilievo come la CTU espletata avesse accertato che il locale comune, denominato centrale termica, risultava davvero interamente occupato dai convenuti con attrezzature ed impianti fissi utilizzati per il sovrastante studio odontoiatrico. La Corte di Trieste dava rilievo alla circostanza che gli stessi appellanti utilizzassero come ripostiglio il distinto vano sub 6, e spiegava che il vano oggetto di lite (sub 5) era destinato a centrale termica condominiale ma fosse di fatto rimasto inutilizzato, avendo i condomini optato per sistemi di riscaldamento autonomo; sicchè, a dire dei giudici d’appello, l’occupazione operata dai convenuti con le attrezzature e gli impianti occorrenti al loro studio odontoiatrico era conforme alla destinazione a natura tecnica di quel vano.

Il primo motivo di ricorso richiama le risultanze peritali, che rivelavano le ridotte dimensioni del vano occupato dai Co. per le esigenze della Linea Odontoiatrica s.r.l. (ml. 1,48 di larghezza e ml. 2,54 di lunghezza) e come tutti gli impianti di pertinenza dello studio odontoiatrico fossero fissi, ad eccezione del compressore di riserva. Sostengono i ricorrenti di aver specificamente dedotto l’impossibilità di un qualsiasi uso alternativo del vano ad opera degli altri condomini, proprio per effetto della sua completa occupazione imputabile alle controparti.

Il secondo motivo di ricorso critica, invece, la Corte d’Appello per aver rigettato la censura sulla mancata compensazione totale delle spese processuali di primo grado.

Ritenuto che il ricorso potesse essere accolto per manifesta fondatezza del suo primo motivo, rimanendo assorbito il secondo motivo, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

Questa Corte ha più volte affermato come l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è sottoposto, secondo il disposto dell’art. 1102 c.c., a due fondamentali limitazioni, consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nell’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri condomini. Simmetricamente, la norma in parola, intesa, altresì, ad assicurare al singolo partecipante, quanto all’esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa, legittima quest’ultimo, entro i limiti ora ricordati, a servirsi di essa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità, non potendosi intendere la nozione di “uso paritetico” in termini di assoluta identità di utilizzazione della “res”, poichè una lettura in tal senso della norma “de qua”, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe il sostanziale divieto, per ciascun condomino, di fare, della cosa comune, qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio. I rapporti condominiali, invero, sono informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione. Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non possano fare un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che, in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali, pertanto, costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto (Cass. Sez. 2, 14/04/2015, n. 7466; Cass. Sez. 2, 30/05/2003, n. 8808; Cass. Sez. 2, 12/02/1998, n. 1499; Cass. Sez. 2, 05/12/1997, n. 12344; Cass. Sez. 2, 23/03/1995, n. 3368).

E’ però evidente in base alla costante interpretazione di questa Corte, e in ciò sta l’errore della sentenza impugnata, che l’uso della cosa comune, ex art. 1102 c.c., non possa mai estendersi all’occupazione (come accertata nel caso in esame) pressochè integrale del bene, tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, all’usucapione della porzione attratta nella propria esclusiva disponibilità (così Cass. Sez. 2, 04/03/2015, n. 4372; Cass. Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699). E’ compito del giudice del merito, in presenza di una condotta del condomino consistente nella stabile ed esclusiva occupazione del bene comune (sia pur funzionale al miglior godimento della sua proprietà individuale) non solo valutare in fatto se ne sia alterata la destinazione, ma comunque se vi sia compatibilità con il pari diritto degli altri partecipanti. E’ quindi imposta al giudice, ove sia denunciato il superamento dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c., per l’occupazione della cosa comune fatta da un condomino, un’indagine diretta all’accertamento della duplice condizione che il bene, nelle parti residue, sia sufficiente a soddisfare anche le potenziali, analoghe esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione, e che lo stesso, ove tutte le predette esigenze risultino soddisfatte, non perderebbe la sua normale ed originaria destinazione, per il cui mutamento è necessaria l’unanimità dei consensi dei partecipanti (Cass. Sez. 6 – 2, 18/01/2011, n. 1062; Cass. Sez. 2, 14/06/2006, n. 13752).

Il primo motivo di ricorso va pertanto accolto (rimanendo assorbito il secondo motivo in ordine alla regolamentazione delle spese dei precedenti gradi) e va cassata la sentenza impugnata, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste, che deciderà uniformandosi al seguente principio:

“L’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell’art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la normale ed originaria destinazione (per il cui mutamento è necessaria l’unanimità dei consensi dei partecipanti) e di impedire agli altri condomini di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto, configurando, pertanto, un abuso la condotta del condomino consistente nella stabile e pressochè integrale occupazione di un “volume tecnico” dell’edificio condominiale, mediante il collocamento di attrezzature ed impianti fissi funzionale al miglior godimento della sua proprietà individuale”.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

PQM

P.Q.M.La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 2 Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2017